LibertàEguale

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di Enrico Morando

 

Vale la pena spendersi per così poco? Non siamo, noi riformisti, quelli che hanno sempre sostenuto che “tutto si tiene“, in materia costituzionale, e che procedere per interventi chirurgici, uno ad uno, rischia di rompere un equilibrio senza sostituirlo con uno migliore?

La mia risposta è che sì, la mera riduzione del numero dei parlamentari – lasciando intatto il bicameralismo perfetto – è certamente poca cosa. Ma il mutamento proposto dal SÌ al prossimo referendum costituzionale – per quanto limitato – è parte coerente di una strategia di riforma costituzionale che il riformisti sostengono da tempo, perché un Parlamento pletorico riduce il prestigio dello stesso agli occhi dei cittadini e ostacola l’efficienza del processo legislativo e l’efficacia dell’azione di sindacato sull’attività del governo.

So bene che l’intenzione di chi – Lega e M5S – ha promosso questa riduzione del numero dei parlamentari non aveva nulla a che fare né con il prestigio del Parlamento – quello, i populisti, lo volevano “aprire come una scatoletta di tonno“, per buttarlo nel cestino della storia e far posto alla democrazia diretta dell’uno vale uno -, né con l’efficienza dell’attività parlamentare. Ma non credo che la consapevolezza delle pessime finalità dei proponenti possa spingere un coerente riformista a farsi paladino dello status quo (l’ennesima riforma costituzionale respinta dagli elettori), difendendo l’indifendibile (i parlamentari italiani sono effettivamente troppi).

Yascha Mounk, nel suo “Popolo versus Democrazia”, illustra quella che considera “la più importante lezione” che i difensori della democrazia liberale debbono trarre dalla esperienza maturata nella lotta contro i populisti autoritari: i liberaldemocratici – scrive – “non sconfiggeranno i populisti finché continueranno a sembrare vincolati allo status quo”.

Capisco il timore di dare fiato – votando SÌ – alla campagna populista contro le istituzioni della democrazia liberale: ma se c’erano delle ragioni sensate per sostenere – come abbiamo sempre sostenuto – che la “nostra“ riforma del Parlamento, per la costruzione di una vera democrazia liberale “decidente”, passava anche attraverso la riduzione del numero dei suoi membri, far vivere quelle stesse ragioni nella campagna per il SÌ sarà certamente più efficace, per combattere la propaganda del SÌ populista, di quanto sarebbe un voto NO che potrebbe risultare – proprio agli occhi degli elettori di orientamento riformista – contraddittoria rispetto alle nostre tradizionali posizioni di riforma costituzionale e, dunque, orientata ad una mera difesa dello status quo.

L’esatto contrario di ciò che ci esorta a fare lo stesso Mounk: “Anche se non è necessario che emulino le soluzioni semplicistiche dei populisti, o che ne assecondino i peggiori valori, i difensori della democrazia liberale hanno urgente bisogno di sviluppare un piano ardimentoso per un futuro migliore“. Se di questo piano è parte – magari piccola, ma non trascurabile – la costruzione di un Parlamento con un minor numero di membri, non può bastare la cattiva intenzione di chi ha promosso questa riduzione a farci sostenere il contrario.

Del resto, non è la prima volta che ci si trova di fronte al problema di distinguere tra intenzioni dei proponenti e merito della riforma e del quesito referendario: nel novembre del lontano 1987, sia la DC, sia il PCI, decisero di votare SÌ al referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, malgrado la maggioranza di entrambi i partiti non condividesse le finalità e le intenzioni con cui il PSI e i Radicali l’avevano promosso. E solo chi non ha partecipato alla dura discussione interna che precedette quel voto (posso testimoniare per il PCI), può pensare che la decisione per il SÌ dipese solo da considerazioni di opportunismo elettoralistico.

Leggo infine le obiezioni di quanti invocano ora la mancata approvazione di una legge elettorale proporzionale per giustificare il proprio NO ad una riforma costituzionale che, da parlamentari, hanno approvato. Confesso, in questo caso, di essere mosso da un giudizio che, con il quesito referendario in sé, non ha nulla a che fare: il ritorno ad una legge elettorale proporzionale – che consenta ad ogni partito di “andare da solo” – priva di fatto gli elettori del potere di decidere, con un unico voto, sia sulla rappresentanza, sia sul governo. Questa scelta discende direttamente non dallo stato di necessità che ha portato alla nascita del Governo giallorosso, ma da una strategia – l’alleanza organica tra PD e M5S -, che considero esiziale per la speranza stessa che il Paese possa conoscere, in futuro, il cambiamento che è necessario per evitare il declino. Per questo, se il Parlamento avesse concluso o robustamente avviato l’iter della legge elettorale proporzionale, il mio SÌ al referendum sarebbe stato a denti stretti, “malmostoso”. Il benvenuto “ritardo” del Parlamento (che spero diventi ripudio definitivo), mi consente invece un SÌ più aperto e convinto.

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