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Renzi o Conte? Il (solito) bivio del Pd

Vittorio Ferla sabato 7 Settembre 2024
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di Vittorio Ferla

 

La partita a scacchi nel centrosinistra è appena iniziata e non sarà certamente la scelta dei candidati alle regionali a chiuderla. Matteo Renzi è stato il primo a riaprire la partita, con l’aiuto inaspettato di Elly Schlein quando ha detto “non poniamo veti, ma non accettiamo veti”. Viceversa, proprio da quel momento è ripartito il gioco dei veti che oggi vede protagonisti Giuseppe Conte e il suo ispiratore Goffredo Bettini.

Il leader di Italia viva è accusato da più parti di cinismo, opportunismo e inaffidabilità ma il suo ragionamento è stato più coerente di quanto appaia. Dopo la sconfitta elettorale del 2018, l’aria per i riformisti dentro al Pd è diventata irrespirabile. Piuttosto che farsi mettere alla porta, Matteo Renzi ha tentato la ‘mossa del cavallo’: la scissione con l’obiettivo poi di costruire un partito riformista macroniano capace di approfittare della crisi di due partiti storici: da una parte, il Partito Democratico, dall’altra, Forza Italia. Nella visione del leader di Italia viva c’era il modello di En Marche! poi rinominato Renaissance, il partito di Emmanuel Macron che in Francia aveva raggiunto un exploit grazie a due fattori. Il primo, istituzionale: l’assetto semipresidenziale con l’annesso sistema elettorale a doppio turno. Il secondo, politico: la crisi di due partiti storici – quello socialista e quello gollista – con la conseguente evaporazione dei voti, molti dei quali intercettati da Renaissance. Sappiamo che, nel nuovo bipolarismo francese emerso da questi smottamenti, il partito di Macron ha di fatto occupato lo spazio del centrosinistra riformista contro la forza emergente del Rassemblement National di Marine Le Pen: uno schema che ha funzionato almeno fino alle elezioni europee di quest’anno.

Quando Renzi ha concepito questo disegno l’ipotesi di un flop di Pd e Fi sembrava realistico. I democratici erano precipitati dai fasti del 40% delle europee del 2014 al 18% del 2018. E sembrava soltanto l’inizio della china. In più, la gestione dei passaggi successivi alla scissione di Renzi si è svolta all’insegna della restaurazione più bieca con l’obiettivo di cancellare ogni traccia non soltanto dell’ex segretario ma, in generale, del riformismo.

In tutto ciò sono stati determinanti i contributi di due figure. In primo luogo, Goffredo Bettini, guru della sinistra romana, che ha cercato di governare il partito per interposto segretario (alias Nicola Zingaretti) inventando la toponomastica del campo largo, battesimo dell’abbraccio mortale con il M5s, in quel momento al massimo del suo fulgore sotto la guida di Giuseppe Conte. In secondo luogo, Enrico Letta, l’angelo vendicatore che ha favorito il rientro dei fuoriusciti di Articolo1 con l’obiettivo di spostare più a sinistra il Pd e, soprattutto, ha costruito le basi per un congresso surreale che per cancellare ogni traccia del passaggio del suo acerrimo nemico – il solito Renzi – ha elevato al ruolo di segretario Elly Schlein, una esponente della sinistra radicale che non era nemmeno iscritta al partito.

Dal canto suo, Forza Italia conosceva un declino apparentemente inarrestabile che andava di pari passo con il decadimento fisico del suo fondatore Silvio Berlusconi e la sua sconfitta nella corsa verso il Quirinale, proprio mentre gli alleati del centrodestra, prima Matteo Salvini e poi Giorgia Meloni, si alternavano alla guida della coalizione. Lo stesso Antonio Tajani è parso a lungo l’esecutore testamentario di un patrimonio in via di dissolvimento, specie dopo la morte del leader.

La storia, però, si è divertita a smentire il disegno di Matteo Renzi. In primo luogo, il partito macroniano non è mai nato. Tra le cause ci sono certamente le faide personalistiche tra lo stesso Renzi e Carlo Calenda e i rispettivi seguaci, ma sarebbe poco serio, sotto il profilo politologico, esaurire il fallimento di quell’impresa in una psicosi narcisistica. Ammesso e non concesso che fosse nato un partito dell’8-10% che spazio avrebbe avuto davvero come polo alternativo rispetto al bipolarismo consolidato in Italia ormai da trent’anni? La stoccata finale al progetto arriva con le elezioni europee del 2024 (elezioni basate peraltro su un sistema di voto proporzionale, quindi potenzialmente aperte alla nascita di un terzo polo fuori dalle costrizioni dei blocchi maggioritari). In quella occasione, non soltanto è fallita l’unità dei micropartiti liberal-democratici ma è soprattutto fallito il progetto del partito di sistema di impronta macroniana. Infatti, i due partiti – Pd e Fi – che con la loro crisi avrebbero dovuto favorirne la nascita hanno resistito e si sono riconsolidati, aumentando perfino i loro voti. In questo contesto, in cui lo schema bipolare vigente ha resistito e si è rafforzato, la scelta di Matteo Renzi di ritornare nel centrosinistra – per quanto cinica e opportunistica possa essere giustamente considerata – appare la più sensata.

Ovviamente, quella di Italia viva è solo una piccola nave corsara che può pretendere di guidare la flotta. Renzi lo sa e, per questo, mette sempre avanti Elly Schlein come capo della nave ammiraglia e la lancia come futuro capo di governo nel caso di vittoria del centrosinistra. Una logica maggioritaria secca che conosce bene essendo stato per anni il propulsore di questa impostazione quando era nel Pd. Per adesso Italia viva ha il ruolo di bilanciare il centrosinistra verso posizioni riformiste, limitando certi eccessi populisti utopistici e velleitari. Ma nulla esclude che, in futuro, Renzi – con i suoi – possa direttamente rientrare nel partito di cui è stato segretario. Del resto, i riformisti del Pd finora si sono accucciati nel quieto vivere e non sono stati in grado di esprimere una loro leadership capace di tener testa alla deriva conservatrice e identitaria avviata dall’ultimo congresso.

I mal di pancia di Conte e Bettini nascono proprio da questo scenario. Il leader del M5s, alle prese con le convulsioni autodistruttive del suo partito, cerca di screditare Renzi ogni giorno accusandolo di “inaffidabilità” e chiede di tenerlo fuori dalla coalizione. Ma così facendo esercita quel potere di veto che Elly Schlein ha dichiarato di rifiutare proprio nel nome dell’unità del centrosinistra e nella prospettiva di disarcionare l’attuale maggioranza di centrodestra.

Dal canto suo, Goffredo Bettini continua la sua opera di pressione culturale antiliberale. Con i suoi interventi caratterizzati dal solito stile elegiaco, oracolare e pedagogico, Bettini cerca di dettare la linea: ecco, così, l’atto d’accusa contro le classi dirigenti occidentali, colpevoli di aver abbandonato le parole “pace, trattativa, compromesso” (come se queste fossero invece le intenzioni delle autocrazie orientali), l’urgenza di “rompere con un atlantismo durato troppo”, di recuperare una “distanza critica” dagli Usa, di non “hitlerizzare” Putin, di condannare il governo Netanyahu mentre viene blandita quella sinistra antiamerikana che stabilisce una abietta e antistorica equivalenza tra il genocidio nazista degli ebrei e la repressione israeliana dei palestinesi. Accanto all’opzione anti-atlantista, Bettini rinnova una concezione autocratica della funzione del partito nella coalizione. Un eventuale partito liberaldemocratico e riformista può esistere ma non può far parte direttamente del cosiddetto campo largo. E in ogni caso “non bisogna darne le chiavi” a Renzi. È il Partito che deve eterodirigere l’alleato liberale ridotto a strumento acchiappa-voti degli elettori centristi.

La partita del futuro si giocherà proprio sul conflitto tra i conservatori di sinistra e i riformisti. Anche perché Elly Schlein, mentre riapre le porte a Renzi, le chiude agli aiuti militari all’Ucraina approvando di fatto la linea orbaniana del governo Meloni. E anche perché i riformisti del Pd – salvo alcuni casi come l’ex ministro della difesa Lorenzo Guerini – continuano a tenere un profilo troppo basso per essere decisivi.

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