di Antonio Preiti
Chi vuole vincere sui populisti deve (ri)conquistare il popolo cattolico, sia in Europa che, soprattutto, in Italia. Perché quest’affermazione che sembra quasi apodittica? Tutta la vicenda gira attorno alla questione immigrazione: il tema che fa vincere Salvini e, seppure in maniera meno diretta e con qualche contraccolpo, il Movimento 5 Stelle.
Perché è proprio il popolo cattolico ad essere cruciale per l’orientamento generale del paese? Qui per popolo cattolico (lo vedremo meglio) non s’intende la gerarchia ecclesiastica, o l’intellighenzia cattolica, o quel 3-4 % che concepisce la politica come terreno di affermazione della visione cattolica della vita. S’intende, piuttosto, la gente che si auto-definisce cattolica, senza andare per forza in Chiesa tutte le domeniche o essere praticante. La questione dell’immigrazione si condensa nel mondo cattolico “tradizionale”, come prima inteso, e fa esplodere il tema dell’identità e, in vario modo, la contestazione delle élite.
L’indagine di Pew Research
Ma andiamo con ordine. Se si scava nell’infinità dei dati dell’indagine condotta da Pew Research (autorevolissima fondazione americana molto attiva sui temi sociali) dedicata al peso della religione nei paesi europei (Being Christian in Western Europe) si scoprono molte cose decisive sul nostro paese. Vediamone alcune.
Alla domanda se sia necessario ridurre i livelli di immigrazione in Europa, il 38% degli europei risponde: “Sì, è necessario”. E fin qui nulla di sconvolgente. La storia comincia a farsi interessante quando si scopre che lo stesso parere viene espresso dal 52% degli italiani, addirittura il 14% in più rispetto alla media europea. Ma scaviamo ancora un po’, e scopriamo che tra quanti si definiscono cattolici praticanti, in Italia, la percentuale sale ancora: siamo al 63%.
Ricapitoliamo. In Italia, a pensare che sia necessario ridurre l’immigrazione è il 63% dei cattolici praticanti, il 51% dei cattolici non praticanti, e il 36% di quanti non seguono una religione.
Andiamo avanti ed arriviamo alla questione identità religiosa, che si traduce in questione d’identità nazionale. Vediamo ancora, allora. Alla domanda se l’Islam sia incompatibile con la cultura e i valori del proprio Paese, il 42% degli europei è convinto dell’incompatibilità. I più persuasi sono i finlandesi, ma subito ci sono gli italiani con il 53%. Ma non basta: tra i praticanti cattolici la quota sale al 63%, mentre scende al 29% tra quanti non professano alcuna religione. Per i cattolici non praticanti si risale al 51%. Si tratta di un risultato, a suo modo, clamoroso.
La questione identità
Passiamo allora alla questione identità, dove il nodo si stringe. Sul fatto che sia molto importante, per mantenere una identità nazionale, avere origini della stessa nazione (family background), è d’accordo la maggioranza degli europei, con il 53%. In Italia, coloro convinti del fatto che avere origini italiane sia necessario per la salvaguardia dell’identità italiana tocca la cifra record del 75 %. In questo, l’Italia è superata solo dal Portogallo. Se tre quarti sembrano pochi, si tocca l’81% fra i cattolici praticanti.
Vediamo l’ultimo (o quasi) insieme di dati, che riguarda ancora l’identità, valutata nell’ambito della sfera quotidiana: nel linguaggio delle ricerche sociali, la si definisce domanda-verità ed è mirata a verificare le risposte precedenti. “Vorreste un musulmano in famiglia?”, si chiede senza mezzi termini nel questionario. Qui la distinzione tra cattolici e protestanti europei diventa notevole: fra i cattolici un musulmano in casa non sarebbe voluto dal 34%, mentre tra i protestanti si scende al 19%. Ma, ecco la sorpresa, fra i cattolici italiani (sommati praticanti e non), si arriva alla cifra record del 48%.
La presenza musulmana
Affondiamo, ancora, al cuore della percezione identitaria e della sua (quasi) coincidenza con l’identità religiosa. Alla domanda se a causa della presenza musulmana le persone si sentano a disagio (feel like a stranger in my own country), in Europa risponde “sì” il 20% dei protestanti e il 27% dei cattolici, mentre in Italia si arriva al 35% dei cattolici.
Questa paura di perdita dell’identità sul piano religioso si sposa con un’altra asimmetria, ugualmente importante, tra identità nazionale ed identità europea. In media, l’85 % della popolazione europea è fiera della sua identità nazionale (national pride). Rispetto a questo dato, l’Italia non si discosta di molto dal dato europeo: l’84 % degli italiani è fiero della propria identità. In sostanza, non siamo ideologicamente più nazionalisti degli altri.
Quando si parla di identità europea, le cose però cambiano. Gli europei fieri dell’identità europea (dato distinto dal giudizio che, invece, si può avere delle istituzioni UE) rappresentano il 77%; in Italia, la fierezza di essere europei (European pride) si ferma al 64%, perciò 13 punti in meno rispetto alla media. Guardando agli altri paesi, chi è leggermente meno fiero dell’Europa sono inglesi e gli svizzeri (entrambi al 62%) e poi nessun altro: siamo fanalino di coda.
Si dirà che, in generale, l’appartenenza religiosa è in caduta libera, ma questo è vero solo in parte. Ci sono solo tre paesi che hanno visto crollare il dato: Olanda, Norvegia e Belgio. In quest’ultimo paese, l’83% è nato cristiano (ossia, in una famiglia di orientamento cristiano, con educazione e riferimenti religiosi cristiani) e, tra questi, si definisce ancora tale il 55%, con una perdita netta pari a 28 punti. Ma quali sono i paesi dove la perdita è stata minima? Austria (-5%) e Italia (-7%). E in Italia, come in Austria, l’80% della popolazione si definisce cristiano. E il 47% si dice praticante o non praticante, ma nettamente orientato dalla religione. Non parliamo perciò di una minoranza.
Un sentimento anti-immigrazione
La questione diventa affascinante, almeno nello stabilire il verso del nesso causale: è il cattolicesimo “popolare”, cioè come cultura diffusa, ad alimentare il sentimento anti-immigrazione? Oppure questi movimenti sono innescati, accesi, provocati dalla politica, che ne solletica i sentimenti più arcani? Difficile stabilirlo, almeno in termini scientifici. Poi ognuno ha la sua opinione. Altrettanto difficile è stabilire se l’immigrazione, al di là della sua importanza specifica, non rappresenti il “pretesto” per una difesa identitaria generale, che coinvolge stili di vita, decisioni dei governi. Si contesta, dunque, una visione del mondo che mette i valori tradizionali e “popolari” fra le cose inutili e insignificanti. Imparate a riconoscere i vostri santi, sembrerebbero dire.
Un punto è certo: il sentimento populista ha radici forti all’interno della società italiana. La chiave di volta sta forse nel comprendere quanto questo sentimento sia frutto della libertà di poter affermare la propria visione della vita, e quanto invece sia negazione imposta agli altri di poter affermare i propri valori. Linea di confine difficile da tracciare, ma unica perseguibile con successo.
Economista, docente all’Università di Firenze. È cresciuto al Censis, ha insegnato alla Luiss Management, Università di Bolzano, ha diretto l’Agenzia del turismo di Firenze, ha lavorato per Banca Imi e altre imprese. Ha ricoperto la carica di Consigliere d’Amministrazione di Enit e Vice Presidente di ETC (European Travel Commission). Collaboratore del Corriere della Sera. Svolge professionalmente studi e ricerche per Sociometrica, di cui è Direttore. Twitter @apreiti web www.antoniopreiti.it