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Ricordo di Loris Fortuna che “amava la libertà sopra ogni cosa”

Alessandro Maran martedì 3 Dicembre 2024
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di Alessandro Maran

Testo dell’intervento pronunciato domenica 1 dicembre a Udine nel corso della cerimonia in ricordo di Loris Fortuna

“Sì, va bene, ora e sempre Enrico Berlinguer”, ha scritto qualche giorno fa Pierluigi Battista. “Grande e onesto combattente. E ora icona cinematografica. Il compendio umano di com’era la sinistra. E di come dovrebbe essere…”.
“Però, data a Berlinguer e al Pci tutta la gratitudine dovute a una tradizione tanto importante della storia italiana, fatto e distribuito il film che lo santifica”, si può dire stop, “fermiamoci qui con la messa cantata” che ha trasformato Berlinguer in un mito “liberal”, in un’icona kennediana.
Fermiamoci qui. Perché come scrive giustamente Battista, la sinistra italiana, negli ultimi decenni del Novecento non è stata solo Enrico Berlinguer. “Berlinguer non è stato il monopolista unico e solitario dell’impegno, della lotta disinteressata per un ideale, l’unico vero leader della sinistra come rimpiangiamo che sarebbe stata. No. Ci sono altri combattenti della sinistra sui cui invece è calata la ghigliottina della damnatio memoriae”.
“C’era la sinistra di Bettino Craxi. C’era la sinistra di Marco Pannella”. Nello stesso Pci c’erano anche i miglioristi di Amendola e Napolitano, che guidò l’opposizione interna più forte al segretario comunista.
“C’era la sinistra radicalsocialista, minoritaria ma combattiva. Che spesso aveva ragione”. Non aveva la romantica grandezza del torto, certo, ironizza Battista. “Ma aveva ragione”.
E c’era Loris Fortuna, socialista, partigiano, deportato in Germania, avvocato degli ultimi, che contribuì al più grande salto culturale compiuto dall’Italia nel Dopoguerra.
C’era Loris Fortuna, che, anche lui, fu prima affascinato dal comunismo, che rinnegò quando i carri armati russi abbatterono il rinnovamento socialista ungherese a Budapest e che nella lettera che indirizzò a Silvano Bacicchi, segretario della federazione di Udine del partito, scrisse: “… nella vita bisogna agire secondo la propria coscienza e non seguire semplicemente e comodamente gli altri” e “per questa somma di motivi (per me importanti, per moltissimi altri no), non mi sento più di lottare per le comuni generali idee del progresso e della civiltà, nella particolare organizzazione costituita dal Pci. Non ritengo però che per battermi con modeste forze e i naturali limiti che posseggo – per la classe a cui appartengo – debba necessariamente essere legato ad una esclusiva forma di organizzazione”.
Presentare Berlinguer che prima scampa a un attentato in Bulgaria e poi è in costante frizione con l’Unione sovietica, come nel film di Segre, significa sorvolare sul fatto che c’è sempre stato molto altro in Italia: una sinistra indipendente c’era prima del ’21 e dopo il ’21; una sinistra che, per esempio, non seguì la linea del Partito comunista in occasione dei terribili episodi di repressione a Budapest (1956) e a Praga (1968).
Sebbene il suo nome sia rimasto indissolubilmente legato alla legge sul divorzio, Loris Fortuna si distinse, nei lunghi anni di attività parlamentare, in numerosissime battaglie nella difesa e nell’ampliamento dei diritti civili: per la riforma della carcerazione preventiva, per l’obiezione di coscienza, per la riparazione degli errori giudiziari, per gli orfani, per le minoranze linguistiche, per la riforma del diritto di famiglia, per l’aborto, per le libertà di espressione e di comunicazione, per la parità di genere, per la liberalizzazione della cannabis, per l’abolizione dell’insegnamento della religione, per i diritti dei detenuti, per il voto degli italiani all’estero, per i Paesi in via di sviluppo; e, infine, per l’eutanasia, regalandoci, nel suo ultimo anno di vita, quando era anche ministro del governo Craxi, un memorabile intervento parlamentare sul diritto a separarsi con dignità e libertà da una vita resa intollerabile dal dolore.
È impressionante riconoscere, nell’attività parlamentare di Fortuna, la sua capacità di anticipare i tempi e di individuare con grande anticipo le tematiche che il “naturale ampliamento dei diritti” avrebbe poi reso evidenti a tutti.
«Amava la libertà sopra ogni cosa – disse Bettino Craxi nell’elogio funebre -, l’amava per sé e per gli altri, e questo suo grande ideale si rifletteva nel suo spirito di indipendenza, nel suo anticonformismo, nella sua insofferenza per le ipocrisie, i tabù, le costrizioni ingiustificate e nel suo profondo senso di giustizia».
C’è una frase lapidaria di Bruno Trentin, un altro combattente dimenticato della sinistra: «La libertà viene prima». Un «concetto politico filosofico» sul quale il mio amico Iginio Ariemma, un dirigente di partito e un’analista acutissimo, ha insistito sino agli ultimi giorni della sua vita. «Libertà, uguaglianza sono valori assoluti, ma l’uguaglianza deriva dalla libertà. La libertà è la progenitrice della sinistra. Non c’è sinistra senza libertà. È il valore assoluto da cui dipendono tutti gli altri…”. “La libertà viene prima, come abbiamo fatto a non capirlo!», si chiedeva.
Se dedicassimo qualche film anche ai protagonisti della sinistra italiana che aveva ragione, dovremmo partire da qui, dalla libertà, e da una figura come quella di Loris Fortuna. E a beneficio di qualche regista che volesse realizzare questo film che nessuno girerà mai, va detto – rammenta Battista – che si tratta di una storia emozionante, con tante luci e tante ombre, piena di episodi sorprendenti, di intrecci avvincenti, di sentimenti incendiari. Come testimonia del resto il bel libro di Gisella Pagano che ci ha regalato un ritratto vivido ed emozionante di Fortuna.
Sono trascorsi cinquantaquattro anni, da quando il primo dicembre 1970, il Parlamento Italiano ha approvato, al termine d’un percorso lunghissimo, la legge, a firma Fortuna e Baslini, che introduceva per la prima volta il divorzio nel nostro Paese. Ma è come se fossero passati dei secoli.
Si sa che la chiesa cattolica ha sempre rappresentato una presenza importante – e ingombrante – nella vita politica e sociale italiana. Ovviamente, negli ultimi decenni le modalità di questa presenza sono cambiate in modo significativo. Al punto che per molti oggi è difficile persino concepire la fortissima presa della chiesa sulla società italiana di quegli anni e raccontare di come permeasse tutti gli anfratti della società e dell’apparato statale.
Erano anni, che oggi appaiono sideralmente lontani. C’erano magistrati che disponevano il sequestro de “l’Espresso” o di “Panorama” per copertine ritenute offensive della moralità pubblica. Si sequestrava un mensile come “Photo”, per le modelle in abiti discinti, ma anche i libri di Alberto Moravia, di Pier Vittorio Tondelli, di Erica Jong. C’è stato anche questo nel nostro paese.
In questo contesto, la Democrazia Cristiana di Amintore Fanfani promosse il referendum con il quale si proponeva di cancellare la legge istitutiva del divorzio.
Allora ero un ragazzo ma ricordo ancora di come la campagna referendaria mobilitò l’intero Paese: non solo i partiti politici del fronte del sì e del no; non solo il Vaticano e la Chiesa, in campo al pari della politica; non solo la stampa, quella militante e quella di costume, femminile, popolare. Fu una vicenda di popolo che riempì le piazze, affollò i comizi, convolse tutti gli italiani. A cominciare dalle donne: la loro battaglia segnò il risultato di quel 59,2% di no che preservò la legge perché, come recitava uno striscione, “Non abbiamo da perdere che le nostre catene”. E ricordo i manifesti della prima prova di democrazia diretta della Repubblica, gli slogan, le copertine, le fotografie, le canzoni, e anche i toni ironici e dissacranti che riflettevano l’evoluzione socio-culturale del Paese. E fu quell’evoluzione che non permise di tornare indietro.
Il referendum sul divorzio “rivelò” infatti molte cose – a ben guardare già prima del suo svolgersi. In primo luogo l’arretratezza delle forze politiche (e dei vertici del mondo cattolico) rispetto alle colossali trasformazioni – e ai drammi – della società italiana. Una società pervasa dal cambiamento in corso dalla seconda metà degli anni 60 e che raggiungerà l’acme nel decennio successivo. Quando dallo Statuto dei Lavoratori al divorzio, appunto, dalla riforma del diritto di famiglia all’istituzione del servizio sanitario nazionale, dalla chiusura dei manicomi alla legge sull’aborto, l’Italia compie un salto di qualità in tema di diritti civili, di libertà, di parità.
Quella di Loris Fortuna è, dunque, una figura di primo piano nella politica italiana del Dopoguerra. Una di quelle persone a cui l’Italia civile e democratica deve più di qualcosa. Eppure, è una figura dimenticata.
«La dannazione della memoria subita da Loris Fortuna è vergognosa, inaudita», lamentava Pannella. È il prezzo che Fortuna ha pagato – e che a quanto pare nel nostro paese si deve pagare: Fortuna non è stato il solo – per aver voluto essere socialista e radicale senza tentennamenti, laico, anticlericale, libertario.
Personaggi di questo tipo, questo tipo di combattenti della sinistra, di un’altra sinistra, devono essere dimenticati, estirpati dalla memoria collettiva. Pagano il torto di aver ragione; imperdonabili agli occhi di quanti avevano torto.
Eppure, basta vedere quante delle tematiche affrontate da Fortuna siano ancora all’ordine per giorno per rendersi conto dell’attualità del socialismo di Loris Fortuna e della contemporaneità del suo esempio. Proprio l’altro giorno, a Londra, la Camera dei Comuni ha dato il via libera alla proposta di legge che consente il suicidio assistito per i malati terminali.
“Mentre gli altri si occupano ancora (a parole) del marxismo o del suo ectoplasma – scriveva Giorgio Bocca in un articolo intitolato ‘Quel matto di Loris Fortuna’ – un tipo in maniche di camicia come Loris capisce per istinto che la rivoluzione c’è oggi, che le idee nuove ci sono oggi”.
“La cultura socialista che lascia il segno nella vita degli uomini e nella loro dignità, è quella a cui Loris è arrivato per istinto: la cultura dei diritti civili del divorzio, del femminismo, dell’aborto, delle minoranze religiose ed etniche, di tutte le libertà concrete, sostanziali, che rifanno del partito socialista un polo d’attrazione, un fratello che non tradisce nel momento del bisogno”.
In Italia, si sa, quella del liberalsocialismo è una tradizione minoritaria tra le culture politiche del “secolo breve”: residuale nel PCI, finita male con Craxi, secondaria nel mondo cattolico.
Ma è proprio a quella cultura di tutte le libertà concrete, sostanziali, a cui Loris è arrivato per istinto che
dobbiamo attingere oggi che il mondo è sottosopra. Oggi che viviamo in un mondo di cambiamenti in accelerazione, che insieme stanno rimodellando il lavoro, l’istruzione, la geopolitica, l’etica e le comunità.
Non è un caso che dappertutto i cambiamenti di questi anni abbiano messo sotto pressione tutti i principali partiti tradizionali e in particolare i partiti di centrosinistra.
L’ordine costruito, dopo il 1945, in Europa occidentale ha rappresentato una rottura decisiva con il passato: gli stati non si sarebbero limitati ad assicurare che i mercati potessero crescere e prosperare e che agli interessi economici venisse dato il margine più ampio possibile. Dopo il 1945, lo stato è diventato il custode della società anziché quello dell’economia, e gli imperativi economici avrebbero dovuto (quando necessario) cedere il passo a quelli sociali.
Anche da questo punto di vista, l’ordine del Dopoguerra ha rappresentato qualcosa di storicamente anomalo.
Il capitalismo era rimasto saldamente in sella, ma era un capitalismo molto diverso da quello esistente prima della guerra: un capitalismo temperato e limitato dal potere dello stato democratico, e spesso subordinato agli scopi della stabilità e della coesione sociale, invece che il contrario. Una cosa molto lontana dalla distruzione del capitalismo invocata dai marxisti ortodossi prima della guerra, ma diversa anche dalla ricetta favorita dei vecchi liberali: mollare le briglie ai mercati il più possibile.
È stato un ordine social-democratico. Ed ha funzionato. Al punto che i trent’anni successivi al ’45 sono stati il periodo di crescita dell’Europa più rapido di sempre. Le economie ristrutturate del Dopoguerra sembravano offrire qualcosa ad ognuno. E poiché il centrosinistra è stato identificato (più di ogni altro) con quest’ordine, è stato anche quello che ha subito di più i contraccolpi generati dal suo deterioramento.
Anche su questo terreno, Loris Fortuna, che si occupò anche di cooperazione con i paesi in via di sviluppo, e che ha dedicato tutta la sua vita a scalzare ogni tipo di pregiudizio e inseguire ogni forma di libertà, a riparare ingiustizie e mobilitare le coscienze, ci ha lasciato una eredità importante, di atteggiamento nella vita.
Proprio perché oggi bisogna cercare strategie nuove in grado di rimettere in moto le economie e proteggere i cittadini dai cambiamenti indotti dalla ‘distruzione creatrice’ del capitalismo, come sempre in continua evoluzione.
Sono in molti oggi a volere tornare indietro. Ma non c’è un posto dove tornare. Perché è venuto meno lo strumento fondamentale usato dalle socialdemocrazie per fornire una organizzazione al capitalismo: lo Stato nazionale. Il vecchio Stato nazionale non è più il teatro prevalente, non è più compiutamente sovrano; e perciò non è più possibile gestire le sofferenze e le contraddizioni sociali create dal capitalismo nella mera dimensione nazionale. Per questo è necessario costruire il nuovo «sovrano europeo».
Un compito che dà a tutta la politica una prospettiva nuova, in forza della quale guardare ai problemi costituiti dalle «sofferenze» della globalizzazione ed anche alle sue enormi possibilità.
È in gioco, di nuovo, la libertà.
Lottare per la libertà ci unisce come europei. È il nostro passato e il nostro presente. É la ragion d’essere della nostra Unione e rimane la sua forza trainante, ha ricordato qualche giorno fa, giustamente, la presidente della commissione europea von der Leyen.
“Credo che la nostra generazione di europei debba lottare ancora una volta per la libertà e la sovranità”, ha poi aggiunto. “Per la libertà per cui il popolo ucraino sta eroicamente lottando. Per la libertà di plasmare il nostro futuro in un mondo conflittuale e instabile”. La nostra lotta per la libertà può apparire diversa rispetto alle generazioni passate, ha detto poi. Ma la posta in gioco è altrettanto alta.
Quello dell’identità della sinistra è un lavoro che non ha fine, un cantiere sempre aperto.
Se oggi possiamo godere di diritti come quello di divorziare, se oggi possiamo confrontarci con le tematiche del fine vita, con una concezione diversa della funzione della pena, con il rifiuto della demonizzazione del diverso, è perché socialisti come Loris Fortuna, insieme ai radicali e ai liberali, non hanno avuto paura di andare contro corrente.
Venite, amici, recitava Tennyson nel suo Ulisse, non è troppo tardi per cercare un mondo nuovo. E, come sempre, non c’è tempo da perdere.

Lo dico a tutti noi che abbiamo ormai i capelli bianchi, in ricordo di Loris Fortuna, con i versi del suo celebre poema. “Non siamo più quella forza che in giorni antichi muoveva terra e cielo, siamo quel che siamo. Indeboliti dal tempo e dal destino, ma forti nella volontà di combattere, cercare, trovare, e di non cedere mai”.

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