di Claudia Mancina
Il Sì non sarà la fine della democrazia, ma un ulteriore ed evitabile cedimento alle pulsioni populiste che trovano spazio non soltanto tra i grillini, ma purtroppo in tutta la politica italiana
Nella vicenda del referendum costituzionale ci sono tre diversi protagonisti, che partecipano con diversi gradi di impegno e di presenza.
Uno è quello costituito dai partiti, che in teoria sono tutti per il Sì , ma non si può dire che si stiano scaldando molto per la campagna referendaria. La destra, in particolare, sembra avere qualche dubbio, avendo capito che la vittoria del Sì non potrebbe che rafforzare il governo. E questo si capisce bene.
Il secondo protagonista è il variegato gruppo di intellettuali e commentatori, non necessariamente giuristi, che stanno animando in queste settimane un dibattito abbastanza vivace. In questo gruppo, a parte la posizione singolare e spiritosa di Gustavo Zagrebelski sull’asino di Buridano, si sommano e si incrociano, com’è inevitabile, motivazioni e argomenti diversi e a volte contraddittori. Accade nei referendum. Intanto non si può non notare che la posizione del No stia crescendo, e certo non soltanto tra i costituzionalisti conservatori; ma anche tra molti che si sono battuti per i precedenti progetti di riforma.
Il terzo protagonista, silente, è il popolo elettore. Si fa presto a immaginare che, se andrà a votare, voterà per il taglio dell’odiata casta. Ma in qual numero e con quali percentuali è tutto da vedere.
Due partiti, però, sono obbligati a prendere posizione: il Movimento 5 stelle, che è il padre ideologico e l’autore pratico della legge, e il Partito democratico, che è il principale partner dell’alleanza.
Tuttavia il Partito democratico, come si sa, parte da una situazione difficile: ha votato no per tre volte e infine sì, per evidenti ragioni politiche, in cambio di impegni (i famosi “correttivi”) che sono stati del tutto disattesi. Così quello che è, o dovrebbe essere, il più solido sostegno dell’attuale governo oscilla dalla tesi che la riduzione del numero dei parlamentari senza correttivi è un vulnus per la democrazia, a quella che tale riduzione è nel suo Dna.
Una bella confusione, dunque, che a volte sfiora i toni della disperazione, a volte produce, anche da parte di esponenti illustri, un poco decoroso arrampicarsi sugli specchi. Intanto nel partito monta la ribellione a un voto positivo che appare come un cedimento clamoroso alla politica, peggio, alla cultura grillina.
È da presumere che la prossima Direzione, grazie a qualche salvagente lanciato dai 5 stelle o da Italia viva (leggasi promessa di legge elettorale, che vale quanto può valere una promessa dell’ultimo momento), deciderà per il Sì, salvo lasciare liberi, come è inevitabile, militanti e dirigenti di votare come gli pare.
Il risultato sarà che, in ogni caso, la vittoria sarà dei 5 stelle; e il Pd farà, non per prima volta, la parte di chi regge la coda.
Il principale argomento per il Sì, da parte dei piddini, sembrerebbe essere quello che «siamo sempre stati per la riduzione del numero dei parlamentari». È stata rispolverata perfino una breve intervista di Nilde Iotti alla Carrà che difende il taglio. Ma la Iotti dovrebbe piuttosto essere ricordata per aver sempre sostenuto, senza farsi accecare dal tabù della Costituzione così forte tra i comunisti, la necessità di superare il bicameralismo paritario trasformando il Senato in una Camera delle regioni. E per non aver esitato a riconoscere la debolezza della parte ordinamentale della nostra legge fondamentale: «la parte relativa all’organizzazione dei poteri, la seconda parte della Costituzione, risentiva troppo di impostazioni del passato, di un influsso del sistema liberale prefascista…» , diceva in sede di discussione della Bicamerale D’Alema.
Ridurre queste posizioni al taglio dei parlamentari è una vera e propria alterazione del suo pensiero. È vero: dal Pds in poi il partito di centrosinistra è sempre stato a favore di una riduzione del numero dei parlamentari, ma sempre nel quadro di una riforma complessiva del bicameralismo e conseguentemente del rapporto tra governo e Parlamento.
La pura e semplice riduzione del numero, senza toccare il funzionamento delle istituzioni rappresentative, non ha altro significato possibile se non quello di una riduzione del ruolo del Parlamento. Si inquadra in modo esplicito nel ridimensionamento della democrazia rappresentativa sempre teorizzato dal Movimento, che infatti ha presentato anche altre proposte di legge che vanno nella stessa direzione, come quella che introduce il vincolo di mandato (che, in parole chiare, significa che il parlamentare è responsabile verso il suo partito e non verso i suoi elettori).
Certo, siamo oggi circondati dalle macerie di tutti i tentativi di riforma organica fatti negli ultimi trent’anni. Si illuderebbe chi pensasse che si possa, nel prossimo futuro, realizzare un obiettivo tante volte mancato. Solo una nuova e diversa fase politica, con diversi soggetti in campo, potrà forse consentire di affrontare di nuovo il tema. Ma si illude altrettanto chi ritiene che intanto si fa un primo passo, poi si continuerà con gli altri. Davvero qualcuno può pensare che la riduzione dei parlamentari apra la strada a una seria riforma del bicameralismo? O che meno parlamentari siano più efficienti, o più qualificati? Suvvia, non prendiamoci in giro.
Questa riforma è semplicemente inutile, se non nel quadro strategico del Movimento 5 stelle. I “correttivi” a cui si pensa non fanno che confermarlo. Pensare che la legge elettorale, che è una legge ordinaria, quindi modificabile in qualunque momento, possa fare da garanzia democratica a una legge costituzionale, è assurdo, come ha sottolineato Nadia Urbinati. E rendere il Senato ancora più identico alla Camera rende il bicameralismo paritario se possibile ancora più insensato. Non sarà la fine della democrazia; ma sarà un ulteriore ed evitabile cedimento alle pulsioni populiste che trovano spazio non soltanto tra i grillini, ma, ahimè, in tutta la politica italiana.
(Pubblicato su Linkiesta il 28 agosto 2020)