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Riduzione dei parlamentari? Riforma marginale, ma il “sì” apre a nuove riforme

Carlo Fusaro lunedì 24 Febbraio 2020
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di Carlo Fusaro

 

La riduzione dei parlamentari. Un’innovazione marginale, ma non si può votare “no”: è utile e tiene aperta la porta a ulteriori riforme. In appendice l’Abbecedario referendario 2020

 

 

1- Il 29 marzo 2020 ciò che gli elettori sono chiamati decidere è: preferiamo lasciare intatta la composizione attuale delle due Camere, fissata nel 1963, per un totale di 945 parlamentari elettivi, o preferiamo confermare quanto il Parlamento ha deciso, cioè una riduzione proporzionale di circa un terzo, prevedendo un totale di 600 parlamentari elettivi (restano, fino al massimo di 5, i senatori di nomina presidenziale)? Questo, e non altro, è l’oggetto del referendum.

 

2- La scelta riguarda, prima di tutto, dunque, il merito della riforma: è opportuno ridurre il numero dei parlamentari elettivi del nostro Parlamento? E’ opportuno ridurli in questa misura? Ovvero: quali sono i pro e quali i contro della legge di revisione varata a fine 2019? Essa riguarda, in secondo luogo, le possibili conseguenze di più ampio respiro del prevalere del “sì” o del “no”: cosa è ragionevole presumere possa succedere, dopo, in un caso e nell’altro. Va da sé che sia l’una sia l’altra di queste valutazioni va contestualizzata: va cioè collocata sullo sfondo del giudizio generale sul funzionamento delle istituzioni politiche italiane, tenendo conto vuoi della lunga teoria di precedenti che, in materia, si sono avuti dai tempi dell’Assemblea costituente fino ad oggi vuoi dei più recenti sviluppi del sistema politico. Qui mi propongo di ragionare sinteticamente intorno a tutto ciò, per poi offrire una specie di abbecedario ad uso dell’elettore. Vediamo.

 

3- Credo che non vi sia alcun dubbio sul fatto che snellire il Parlamento italiano riducendo la composizione delle due Camere sia una scelta opportuna: del resto essa è stata condivisa da tutte le forze politiche, praticamente nessuna esclusa, da molti decenni. Come mostra uno studio di Emanuele Rossi, sin dai tempi della prima Commissione bicamerale per le riforme istituzionali (c.d. Bozzi: 1983-1985) furono avanzate le prime ipotesi di riduzione (da 945 a 720: 480 Camera, 240 Senato); in occasione della seconda (De Mita-Iotti: 1992-1994) si ipotizzò un ridimensionamento simile all’attuale (400 Camera, 200 Senato); esso fu ripreso più o meno negli stessi termini dalla terza Commissione bicamerale (la c.d. D’Alema: Camera da 400-500 e Senato da 200). Nel 2005, il Parlamento dominato dal centrodestra approvò un riduzione minore, con un totale di 760 componenti (518 + 252); nel 2007, la I commissione affari costituzionale della Camera ipotizzò a sua volta una Camera da 512 componenti e un Senato da 186, peraltro di elezione indiretta (c.d. bozza Violante); poi, il Senato nel 2012 varò una riduzione a 758 (Camera 508, Senato 250) senza seguito; infine, nella penultima legislatura, quella della riforma fallita, prima gli esperti nominati dal presidente della Repubblica ipotizzarono una Camera da 480 componenti e un Senato indiretto da 120, poi la Commissione Letta-Quagliariello (con esperti di ogni ispirazione) suggerì una Camera da 450-480 e un Senato da 150/200, infine la riforma Renzi-Boschi previde una soluzione che – singolarmente – oggi piacerebbe a tutti (a leggere i fautori del “no”) con 630 deputati e solo 100 senatori di cui 95 eletti fra i consiglieri regionali dai Consigli regionali.

Capisco che l’elenco sembra uggioso, e forse lo è: ma vivaddio mi pare difficile svegliarsi nel 2020 e ritenere che tutti si siano sbagliati e abbiano pervicacemente continuato a farlo per quasi quarant’anni. Credo nelle cose semplici, e questo mi pare un argomento onnicomprensivo e risolutivo.

Ma sorregge la proposta di riduzione anche il confronto con altri paesi. Su questo si leggono affermazioni semplicemente false e dati manipolati. Propongo perciò la seguente tabella. Vediamola con le sue note.

 

Dati comparati sul numero dei parlamentari (dati 2019)
  Popolazione I Camera II Camera Totale elett. Parlam/Abit Vedi nota
Italia oggi 60.400.000 630 315 945 1/63.900 95.873/191.746
Italia dopo 400 200 600 1/100.666 151.000/302.000
Germania 82.400.000 598/709 69 709 1/116.220 137.800/116.220
Francia 67.000.000 577 348 577 1/116.118 Riduzione in corso
Regno Un. 66.800.000 650 793 650 1/102.769 Riduzione votata
Spagna 47.000.000 350 208 558 1/84.230  
             
Usa 329.500.000 435 100 535 1/615.888  

Nota di lettura: si tiene conto dei parlamentari elettivi; per questo non sono considerati, nella quinta colonna, i componenti del Bundesrat, del Senato francese, della Camera dei Lords e una parte dei componenti del Senato spagnolo. Per la Germania si considera nell’ultima colonna sia il rapporto con i componenti standard (598) sia quello con i componenti attuali gonfiati dalla riproporzionalizzazione. I dati sugli USA sono riportati a parte sia perché il modello istituzionale è del tutto diverso sia perché la dimensione della popolazione è incomparabile, pari a quattro volte quella del maggior stato europeo. Infine, in Francia il Parlamento sta approvando una riduzione dei parlamentari significativa con l’Assemblea nazionale che ne avrà 424.

 

Come si vede, oggi l’Italia ha un rapporto fra parlamentari e popolazione più basso di qualsiasi altro paese comparabile ad eccezione della Spagna, anche a considerare solo la Camera; ma in più ha il Senato! Ovviamente questi dati cambiano molto con la riduzione prevista dalla riforma: ma siccome essi vengono usati ai fini non solo di un’astratta comparazione ma anche per la discussione sul presunto vulnus alla capacità di rappresentare del Parlamento, ritengo corretto considerare il numero totale dei parlamentari elettivi. E’ una scelta tutta italiana quella di suddividerli in due camere che fanno esattamente le stesse cose: resta che c’è oggi un parlamentare ogni 63.900 abitanti e domani ce ne sarà uno ogni 100.666, sempre più che da qualsiasi altra parte. Lasciando da parte la comparazione, sotto questo specifico profilo, si può aggiungere che quel rapporto si abbassa se si considerano non gli abitanti, ma gli elettori: che sono 50.800.000 per la Camera e, oggi, solo 46.700.000 per il Senato: il che produce un rapporto di 1 a 80.630 per la Camera, di 1 a 148.250 per il Senato con un rapporto cumulativo di 1 parlamentare ogni 49.400 elettori del Senato! Questo rapporto salirà a 1 ogni 84.600 (senza più distinzioni Camera-Senato).

Va anche detto che, come si legge in un parere della Commissione per la democrazia attraverso il diritto del Consiglio d’Europa (c.d. Commissione di Venezia), «non esistono standard internazionali che consiglino un qualsiasi rapporto fra seggi parlamentari e dimensione della popolazione» (parere 662/2012 del 18 giugno 2012). Dunque, a parte il fatto che in concreto, mano a mano che cresce la popolazione, il rapporto tende ad alzarsi (per ovvie ragioni), ogni paese fa come vuole. In ogni caso rimane la sproporzione attuale del numero dei parlamentari italiani (e il costo delle due Camere doppione che pesano più di qualsiasi altro Parlamento in Europa, sfiorando quello del Congresso Usa) spiega sia il favore di tutte le forze politiche per la riduzione sia la generalizzata opinione popolare nella stessa direzione (entrambe, come si è visto, indipendenti e precedenti le spinte demagogiche di partiti come il M5S).

Segnalo infine una curiosità, per quel che può valere: un importante politologo estone, Rein Tageepera, ha teorizzato che il numero di rappresentanti “ideale” sarebbe la radice cubica della popolazione rappresentata: ebbene applicando la sua “legge”, i 60.400.000 italiani dovrebbero esprimere esattamente 392,14 deputati, un numero straordinariamente vicino ai 392 (più gli 8 che rappresentano i circa quattro milioni di italiani all’estero) che effettivamente essi eleggeranno se la riforma verrà confermata.

Del resto ha scritto bene un giovane studioso, Giacomo Delledonne, tenendo conto anche della lezione comparata inclusi i progetti di riduzione, per esempio francesi e le tendenze di lungo periodo): «la vicenda italiana…» costituisce «…la declinazione particolare di un più vasto movimento europeo…».

 

4- Ma la riduzione dei parlamentari che vantaggi potrebbe comportare oltre a quello, da non trascurare, di aiutare a riconciliare cittadini e istituzioni? Si è parlato prima di tutto di minori costi, in secondo luogo di maggiore funzionalità. Condivido, pur con alcune avvertenze.

Sui minori costi (così come nel 2016) si fa molta confusione, giocando sui criteri per calcolarli, con i fautori della riforma tesi a gonfiare il risparmio conseguibile e gli oppositori tesi a ridimensionarlo, entrambi al di là di ogni ragionevolezza. A parte il fatto che non capisco questa recentissima moda di considerare del tutto irrilevanti tali risparmi (quale che ne sia l’entità), credo sia doveroso distinguere i minori oneri immediati e quelli a regime. I primi consistono nelle sole indennità e nei soli rimborsi spese di 345 parlamentari. I secondi sono destinati ad essere, invece, molto più consistenti. Infatti oggi la Camera “costa” 960 milioni/anno e il Senato 545: come si vede, vi è un rapporto preciso fra componenti e spesa (la Camera costa 1,5 milioni/anno per componente; il Senato 1,7: la differenza dipende da alcuni oneri fissi derivanti al solo fatto che un’assemblea esista e faccia certe cose, indipendentemente dalla composizione). Del totale, poi, ben il 42% sono pensioni e vitalizi, che ovviamente continueranno ad essere erogati e diminuiranno solo col tempo, lentamente. Allo stesso modo, all’indomani della riduzione non è da pensare che impiegati e funzionari verranno licenziati di botto o i locali occupati dagli uffici dei 345 in meno venduti subito. Tuttavia è altrettanto chiaro che, alla lunga, si avrà un ridimensionamento sia pur degressivo (meno che proporzionale) in relazione al numero dei componenti: e ancor di più se, continuando la strategia di totale uniformazione delle due Camere, si saprà risparmiare creando un corpo unico di funzionari e servizi comuni (strada invero già avviata e che la riforma del 2016, quella bocciata, aveva previsto fosse obbligata). In conclusione: pensare, in un paio di decenni, a un ridimensionamento di almeno il 25% dei costi non appare fuori luogo: nell’ordine di 3-400 milioni all’anno e 1,5-2 miliardi per legislatura da cinque anni. Sono il primo a condividere l’assunto secondo il quale sarebbe miope fare i micragnosi a danno della rappresentanza democratica: ma da qui a finanziare senza limiti un Parlamento pletorico come l’attuale, ne corre. E non mi riesce di capire come gli stessi fautori del “no” (all’insegna del “non si risparmia sulla democrazia”) possano poi proporre in alternativa la riduzione di indennità e rimborsi: che avrebbe conseguenza avere più parlamentari peggio pagati, ricetta sicura per peggiorare ancora la qualità delle “vocazioni” e accrescere le tentazioni.

 

5- Quanto alla funzionalità e agli effetti su di essa della riduzione, siamo davanti a un altro argomento molto dibattuto: anche su questo si leggono tante affermazioni apodittiche e tanta propaganda. Penso che si tratti laicamente di distinguere fra presupposti e comportamenti concreti.

Non mi pare si possano nutrire molti dubbi sul fatto che assemblee meno pletoriche siano in teoria più funzionali: meno gruppi, gruppi meno folti, commissioni meno affollate, potenzialmente meno interventi, votazioni più rapide, e così via. Naturalmente molto dipenderà dal se e come dell’adeguamento dei regolamenti delle due Camere: numero delle commissioni, partecipazione dei singoli (oggi limitata ad una sola commissione), verifica dell’adeguatezza dei quorum, mantenimento o no del numero di componenti ai fini della costituzione di un gruppo, e così via. Ma soprattutto molto dipenderà dai comportamenti. E su questi nessuno può dare garanzie né in una direzione né in quella opposta.

Va però aggiunto che assemblee meno numerose sono in genere più prestigiose e sono in grado di pesare di più rispetto ad assemblee pletoriche. Al riguardo osservo che, pur in un sistema molto diverso, l’assemblea rappresentativa più potente del mondo è il Senato degli Stati Uniti, e ciò anche perché composto di solo 100 componenti (oltre che per la durata lunga del mandato): mentre le assemblee rappresentative dei paesi socialisti, a partire da quella dell’Urss, hanno tipicamente contato poco o nulla. Oggi l’Assemblea nazionale del popolo della Repubblica popolare cinese ha significativamente 2980 componenti. In ultimo, penso anche che assemblee più snelle permettano una selezione migliore della classe politica: anche se alcuni fautori del “no” pensano l’esatto contrario. Ne riparlo più avanti.

 

6- Vediamo adesso in breve i principali argomenti dei fautori del “no”.

Lascio da parte coloro che pensano che la riduzione del numero dei parlamentari sia opportuna, ma che si è esagerato nella misura (il taglio di un terzo sarebbe eccessivo). Abbiamo visto già che regole standard non ce ne sono; ma soprattutto credo si possa affermare che le controindicazioni evocate dai critici (di discuto di seguito) difficilmente potrebbero essere superate se il taglio fosse di cinquanta o anche cento parlamentari in meno. Insomma fra 600 e 650 o 700 chi può ragionevolmente pensare che cambi nientemeno che la “qualità della democrazia”?

Una prima critica è quella in base alla quale la riduzione avrebbe dovuto avvenire in un quadro più ampio che includesse la revisione delle funzioni delle due camere. Intanto a me pare un’osservazione che si può permettere di fare solo chi ha votato “sì” al referendum del 4 dicembre 2016! Quel voto andò come andò: la conseguenza è che per molti anni sarà difficile tornarci su. La riduzione rispetta quell’esito e si concentra su un aspetto specifico, isolato dal resto. A me sarebbe piaciuto diversamente, ma non posso che prenderne atto e prendere atto, anche, che politici e accademici ci hanno spiegato fino alla nausea che «le riforme costituzionali è bene (e secondo taluno è doveroso) siano puntuali e non organiche». Non si può essere contro una riforma organica perché mette insieme troppi aspetti diversi e poi essere contro una riforma puntuale perché… non è organica.

Una seconda critica riguarda una presunta minore rappresentatività di assemblee ridotte drasticamente nel numero dei componenti. E’ a mio avviso la critica più seria, anche se indica un rovesciamento di opinione rispetto a quella consolidata delle riforme fatte e tentate in Italia dagli anni Ottanta dello scorso secolo ad oggi. Secondo i fautori di questa tesi, meno parlamentari comportano varie conseguenze negative: (a) la probabilità dell’ingresso in Parlamento di meno forze politiche; (b) un rapporto eletti/elettori meno stretto; (c) la probabilità che la distribuzione territoriale (regionale, provinciale, cittadina) degli eletti “copra” meno il paese nella sua varietà e complessità: in pratica che vi siano province o parti di province che non esprimano il “loro” parlamentare. Questa critica si collega ovviamente con la legislazione elettorale in vigore, le cui caratteristiche ne accentuerebbero le conseguenze (e infatti se ne trae spunto per un’ennesima modifica del sistema elettorale).

Dissento radicalmente, e con qualche fastidio, dal primo punto (a): non si può lamentare l’eccessiva frammentazione della rappresentanza un giorno e poi il giorno dopo preoccuparsi se una riduzione dei parlamentari rischia di lasciar fuori qualche partitino. Sul secondo (b) ho poco da dire: non c’è dubbio che ogni parlamentare rappresenterà più cittadini, obietto però che l’unica alternativa sarebbe quella di tenerci i quasi mille che abbiamo adesso… e magari aumentarli! D’altra parte non si deve dimenticare che il cittadino – rispetto ai tempi della Costituente – elegge oggi direttamente sindaci e presidenti di Regione nonché i consiglieri regionali della sua Regione, che sono legislatori anch’essi. Stesso discorso vale per il punto (c): a parte che già adesso vi sono – ovviamente – città e province (c.d. “territori” come si usa dire oggi, con espressione approssimativa e generica) che non esprimono alcun “loro” parlamentare, va ripetuto il discorso appena fatto: ci sarà, invece, il consigliere regionale, tanto più che i componenti del Parlamento è bene siano legati ai luoghi dove vengono eletti, ma meglio non lo siano troppo. Avverto in proposito un curioso localismo di ritorno che riscopre il legame diretto fra elettori ed eletti che proprio chi si preoccupa dell’antipolitica e delle sorti dei partiti politici (come molti fautori del “no”), non dovrebbe condividere.

Qui mi soffermo: perché dato e non concesso che sia opportuno un legame stretto fra collegi ed eletti e una sorta di equi-distribuzione sul territorio degli eletti, sono cose di cui si può occupare la legge elettorale. Per esempio creando 400 collegi uninominali per la Camera e 200 per il Senato: invece – fautori del “no” e fautori del “sì” uniti nella lotta – si va allegramente, così pare, in direzione opposta, cioè verso l’abolizione dei collegi rimasti (un terzo). Eppure è evidente che delle due l’una: o si privilegia un certo rapporto proporzionale fra popolazione e seggi o ci saranno comunque realtà che non esprimono un loro concittadino (comunale, provinciale) come rappresentante: quale che sia la legge elettorale.

Una terza critica riguarda come la riduzione si realizza nel distribuire i deputati e soprattutto i senatori per regione: sarebbero troppo rappresentate regioni piccole (si segnalano Val d’Aosta, Molise, Trentino-Süd Tirol). Osservo che in misura maggiore o minore è sempre stato così grazie alla regola degli almeno sette senatori per Regione (tranne Val d’Aosta e Molise, quest’ultimo fin qui penalizzato). Leggo poi indignati commenti sul fatto che la Regione Trentino-Süd Tirol avrebbe ben 6 senatori (molto più della media): come se non esistesse il problema della tutela (in parte anche internazionale) della minoranza di lingua tedesca e come se non fosse vero che solo formalmente esiste una Regione Trentino-Süd Tirol mentre esistono invece due province autonome, di Trento e di Bolzano che sono di fatto ciascuna una regione (e tutte le regioni avranno minimo 3 senatori, salve le solite due eccezioni)! Altri più grossolani critici parlano di minoranze linguistiche non tutelate: per cui uno si domanda, troppo o troppo poco? Bisognerebbe mettersi d’accordo.

Una quarta critica riguarda il fatto che meno parlamentari sarebbero più immediatamente soggetti alla leadership del partito che li candida, e anche più facilmente vittime di lobbies. Anche su questo facciamo chiarezza: non siamo nell’Ottocento (nelle assemblee di notabili in cui non esistevano partiti politici). Che i parlamentari facciano – salve eccezioni e casi di coscienza – cosa il partito che li ha candidati (e il gruppo) decide, si presume secondo le direttive di chi guida il partito, non solo non deve scandalizzare, ma è utile sia così. Il regime parlamentare non può funzionare se i gruppi non sostengono lealmente il governo (o altrettanto lealmente gli si oppongono). Non basta: legge elettorale a parte, continuo a pensare che la qualità della rappresentanza non possa che migliorare da una maggiore inevitabile selezione quantitativa: del resto è difficile immaginare una classe parlamentare più modesta di quella espressa dalla XVIII e dalla XVII legislatura. Ferme restando le percentuali di voto attribuite alle forze politiche dagli elettori, non pensiamo che mediamente la qualità di 600 dovrebbe essere tendenzialmente migliore di quasi mille? (Dovrebbe, potrebbe: non è detto, naturalmente). Quanto alle interferenze di interessi esterni (quelle non trasparenti o addirittura vietate perché in conflitto: le altre sono legittime ed anzi preziose), a me pare che assemblee più numerose rendano più probabili possibili infiltrazioni, mentre dovrebbe essere più agevole controllare e responsabilizzare un numero minore di parlamentari.

Una quinta serie di critiche riguarda le eventuali conseguenze che la riduzione avrebbe sui quorum che la Costituzione prevede per alcune decisioni parlamentari (elezione dei giudici costituzionali, dei componenti del Csm, revisione costituzionale, elezione del presidente della Repubblica): quest’ultima a parte, non si capisce davvero la ragione di tale preoccupazione visto che si tratta di percentuali che restano identiche a quelle vigenti, pur applicate a numeri più piccoli. Una giovane studiosa, Elena Vivaldi, ha esaminato con grande meticolosità questi aspetti ed ha concluso che «…in ultima analisi… non pare che la riduzione del numero dei parlamentari possa alterare, in modo diretto ed indipendente da altre variabili, le funzioni analizzate» (quelle elencate sopra). Parzialmente diverso – in minima parte – il discorso per l’elezione del presidente della Repubblica: ad essa infatti partecipano 58 delegati regionali il cui numero la legge di revisione non tocca. Quindi sul totale dei grandi elettori la quota di espressione dei consigli regionali salirebbe, rebus sic stantibus, dal 5.8% all’8.7%: essi in altre parole peserebbero un po’ di più. Ma i delegati regionali non hanno mai costituito un gruppo omogeneo che si esprime come tale: si tratta di uomini di partito che ad altri uomini di partito si aggiungono. Un vantaggio potrebbe derivarne solo nel caso di un partito o una coalizione di partito che fosse maggioritaria in tutte o quasi tutte le Regioni: ma anche in tal caso l’effetto sarebbe limitato dall’obbligo costituzionale di rappresentanza delle minoranze, per cui in nessun caso quel “vantaggio” potrebbe essere superiore a una manciata di voti. Ad ogni buon conto, infine, la riduzione proporzionale del numero dei delegati regionali (a 39) è prevista da un progetto in itinere (sul quale sarebbe comunque bene riflettere: perché delle due l’una, o si rischia un effetto contro-maggioritario con le delegazioni regionali composte da un delegato di maggioranza e uno di opposizione oppure un effetto troppo maggioritario con i due delegati entrambi attribuiti alla cadendo così dalla padella nella brace).

Una sesta preoccupazione riguarda un aspetto già trattato prima, quello dell’opportunità di adeguare i regolamenti parlamentari: ci si domanda, se e come ciò avverrà, e si segnalano difficoltà e possibili conseguenze negative. Ma in tutta onestà non si vede perché ciascuna Camera non dovrebbe procedere con buona volontà al riguardo. Anzi sarebbe utile che la riflessione e la progettazione, e magari anche l’approvazione di nuove disposizioni fossero perseguite già in questa legislatura. D’altra parte non conosco innovazione di sorta (o quasi) che non imponga per la concreta ed efficace sua applicazione un’attività successiva di adeguamento ed attuazione attraverso il varo di norme di fonti subordinate (oltre che ovviamente comportamenti adeguati). E’ chiaro che se si rinuncia ad innovare solo per il timore che ciò non avvenga o non avvenga nella misura attesa, si finisce preda della conservazione più ottusa.

In ultimo c’è chi dice che – entrata in vigore la riduzione – si accentuerà la pressione per elezioni anticipate a causa di una presunta delegittimazione del Parlamento. A parte che la Corte costituzionale ha detto al riguardo cose definitive in senso opposto, non si vede proprio perché dovrebbe essere così: al contrario io direi anzi che un “no” delegittimerebbe davvero le due Camere, smentite per l’ennesima volta e su un punto così specifico; mentre un “sì” ne confermerebbe e ne esalterebbe, oggi, la legittimazione. Né si può fare come Bertoldo e trovare sempre una scusa per non fare quel che si deve, una volta affermando che sono inopportune riforme a fine legislatura, un’altra affermando che, avendo riformato… diventa necessario sciogliere subito le camere.

 

7- Ma la riduzione del numero dei parlamentari, ammesso che sia positiva come io sostengo, e per nulla “pericolosa”, che riforma è: fondamentale, rilevante, decisiva, grande oppure modesta, marginale e tale che sia difficile appassionarvicisi?

Come ha visto chi mi ha seguito fin qui, non ho speso righe per richiamare l’esperienza della riforma del 2014-2016: a me pare evidente che le istituzioni politiche italiane abbisognano più che mai di un incisivo cambiamento che incida sul bicameralismo, sulla forma di governo, sui rapporti Stato-Regioni e su molto altro ancora. La riduzione dei deputati è una scelta in sé giusta che avrebbe meritato di essere inserita in un contesto molto più ampio: se non che il Parlamento ci ha provato più volte ma invano. Si deve tenerne conto. Né si può ignorare che la composizione politica delle Camere di questa legislatura è quella che gli italiani hanno deciso due anni fa: occorre tenerne conto. E’ questo quel che passa il convento.

Si tratta dunque di un intervento non solo puntuale, ma direi parziale, e certamente marginale; non inutile, ma modesto: ma respingerlo farebbe danni notevoli. Confermerebbe l’irriformabilità delle nostre istituzioni politiche, anche per aspetti minori; confermerebbe un atteggiamento di delegittimazione del Parlamento, di questo e dei precedenti che hanno votato per ben 13 volte 13 la riduzione del numero dei propri componenti (un record fra tutte le democrazie consolidate). Chi si preoccupa della vera o presunta umiliazione della democrazia rappresentativa dovrebbe ben comprendere che dire di “no” a questa miniriforma sarebbe un vero e proprio insulto, la prova provata che qualsiasi cosa decidano le forze politiche v’è un corpo elettorale così inferocito da rispondere sempre e comunque con uno sberleffo. Ricordo che al Senato nella seconda votazione i sì sono stati 180 su 231 presenti (il 78.3% di costoro, il 56% dei componenti), mentre alla Camera sono stati ben 553 su 569 presenti (il 97.2%, quasi l’88% dei componenti). Si può ben dire che siamo di fronte a una riforma condivisa da tutte le forze politiche e di cui tutte condividono la responsabilità.

Di più: anche se discutere di istituzioni non fa mai male, quello del 29 marzo è un referendum che non avrebbe dovuto tenersi. Le cronache politiche di fine 2019 hanno mostrato senza ombra di dubbio che sia i voti mancati al Senato rispetto ai due terzi (ce ne sarebbero voluti 34 in più) sia le firme sulla richiesta di referendum (71, ne sarebbero bastate 64), con la sceneggiata di quelle messe, ritirate e poi riaggiunte, è stata dovuta non già alla opportunità di sottoporre la scelta finale al corpo elettorale, ma a intrecci contorti e molto poco trasparenti intorno alle modifiche alla legge elettorale, al referendum che era stato richiesto (e la Corte ha dichiarato poi inammissibile) e, prima di tutto, a calcoli sofisticati e cervellotici sulla durata della legislatura.

Infine: in che direzione va la parte attualmente maggioritaria delle forze politiche nel predisporre ulteriori innovazioni elettorali e costituzionali a corredo della riduzione di deputati e senatori, secondo le intese M5S-Pd alla formazione del governo Conte II? Va verso un’eliminazione – a questo punto ragionevole e quasi doverosa – dei residui elementi di differenziazione fra le due Camere gemelle grazie alla (tardiva) estensione dell’elettorato del Senato ai cittadini maggiorenni e il superamento della rigida ripartizione regionale delle circoscrizioni senatoriali: in altre parole si sta realizzando una sorta di bicameralismo assoluto cioè un Parlamento fatto di due camere del tutto identiche in tutto tranne che, ormai per ragioni meramente storiche, il numero dei componenti (e la presenza dei senatori a vita). E’ legittimo sperare che, visto che l’esperienza mostrerà presto che la riforma non arreca grandi vantaggi ma neanche danni (diversamente da quello che i fautori del “no” dicono di temere), l’assurdità e la strutturale inefficienza di un Parlamento di questo genere, costruito a ben vedere solo ed esclusivamente per rallentare i processi decisionali parlamentari e indebolire il rapporto governo-Parlamento, finirà con il risultare in tutta la sua clamorosa evidenza, rilanciando il tema delle riforme politico-istituzionali, quelle davvero incisive.

Ecco per che, in conclusione, mi domando: come si fa a votare, anche stavolta, “no”? e perché?

 

 

 

Abbecedario referendario 2020

  

Bicameralismo assoluto. L’Italia come quasi tutti i paesi con i quali si confronta ha un Parlamento bicamerale, cioè formato da due camere. L’Italia però è la sola a eleggere direttamente due camere con gli stessi poteri, il che costituisce una complicazione non da poco, perché fra questi poteri vi è – diversamente dagli Stati Uniti che pure hanno un bicameralismo paritario – il potere di vita o di morte sul governo (rapporto di fiducia), il che rende due volte più difficile il funzionamento del regime parlamentare (che sul rapporto di fiducia, necessario, si fonda). Per questo più che paritario quello italiano è oggi un bicameralismo indifferenziato. Abbandonati i propositi di riforma del Senato (e la sua trasformazione, per esempio, in una camera delle Regioni), avendo deciso di mantenere le altre caratteristiche, oggi si procede verso l’abolizione – in questa logica doverosa – degli ultimi fattori che distinguono Camera e Senato, in particolare l’elettorato attivo e passivo. Ecco perché, scherzando ma non troppo, parafrasiamo un’espressione inopportunamente usato in passato in relazione alla forma di governo, parlando di bicameralismo assoluto.

 

Chi è il padre di questa riduzione dei parlamentari. E’ una decisione che ha molti padri: infatti se ne parla da trentacinque anni. Dopo il “no” al referendum del 2016 è prevalsa la tesi delle riforme costituzioni puntuali. Questa strategia è stata annunciata dal ministro Fraccaro sin dalla nascita del governo M5S-Lega: e perseguita dai rispettivi gruppi parlamentari. Il Pd era contrario in assenza di altre misure coordinate e necessarie (voto ai diciottenni prima di tutto, v.). Non c’è dubbio che la riduzione corrisponde alla campagna contro la casta e, nel M5S, si sposa con il potenziamento della democrazia diretta a spese di quella rappresentativa. Ma – appunto – che il nostro Parlamento abbia una composizione pletorica è opinione larghissimamente condivisa.

 

Chi ha voluto il referendum e perché. Possono chiedere il referendum confermativo cinque consigli regionali, cinquecentomila elettori o un quinto dei componenti di una Camera. Lo han chiesto 71 senatori (ce ne volevano 64 almeno). Ma essi sapevano benissimo che l’opinione pubblica è largamente favorevole alla riduzione: il loro scopo, in molti casi dichiarato, era quello di influenzare la Corte costituzionale sull’ammissibilità del referendum sulla legge elettorale e condizionare in qualche modo la durata della legislatura (per abbreviarla o allungarla a seconda delle aspettative).

 

Contro. A parità di tutto il resto, non se ne vedono, di veramente persuasivi. Forse il fatto che la riduzione induca la maggioranza attuale a pasticciare nuovamente con la legge elettorale e in direzione proporzionalistica. Certo: meglio sarebbe stato che la riduzione si inserisse in una revisione generale del bicameralismo. Ma questa è stata più volte bocciata anche di recente, per cui essa non è – a torto o a ragione – all’ordine del giorno. E siccome non si vede che danni maggiori possa fare la riduzione, tanto vale prendere quel che passa il convento per riprendere il discorso più avanti, a camere snellite.

 

Cosa cambia. Semplice: i deputati da 630 diventano 400; i senatori elettivi da 315 diventano 200. Per il resto non cambia assolutamente nulla.

 

Costi e risparmi. E’ una delle ragioni su cui più si insiste da molti anni e anche ossessivamente da che è scoppiata ed è stata alimentata la polemica sulla c.d. casta. E’ chiaro che gli oneri per assemblee rappresentative giustamente dimensionate ed efficienti possono ben valere la pena di essere sostenuti. Ed è pure chiaro che è un bene che le assemblee rappresentative siano sorrette da valide tecnostrutture al loro servizio: e competenti tecnostrutture costano. Resta che costruirne al servizio di una pletora di rappresentanti non si giustifica. E quasi mille son davvero troppi. Che risparmi si conseguiranno? A regime e dopo alcune legislature operando con determinazione si dovrebbero poter risparmiare somme relativamente consistenti. Esse naturalmente nel mare magnum di una spesa pubblica che assorbe circa il 42-43% del prodotto interno lordo, restano una goccia. Non va sottovalutato peraltro la valenza simbolica dello snellimento. Se poi si riuscisse a tradurre la riduzione in maggiore efficienza operativa il guadagno sarebbe ben maggiore di quello finanziario.

 

Leggi ordinarie connesse. Sin dalla nascita del governo Conte II le forze di maggioranza hanno concordato di cogliere l’occasione della riduzione dei parlamentari per rivedere la legge elettorale (che risale a meno di tre anni fa, la legge 165/2017). E’ a mio avviso, prevalentemente, un pretesto. Infatti non sta scritto da nessuna parte che la revisione imponga il passaggio, come si prevede, a un sistema integralmente proporzionale (oggi è misto, maggioritario per un terzo di parlamentari e proporzionale per il resto). In effetti la riduzione secca di un terzo può comportare talune difficoltà: che potrebbero essere affrontate anche prevedendo tutti collegi uninominali (ciò risolverebbe la lamentata distanza candidati – elettori). Ma siccome si tema una vittoria della destra guidata da Matteo Salvini, si preferisce un sistema proporzionale in cui per qualsiasi forza politica e coalizione sia più difficile fare maggioranza (una ricetta sicura verso l’ingovernabilità). Si vedrà.

 

Precedenti. La riduzione del numero dei parlamentari non è una novità: essa è stata votata dalle Camere in quattro diverse legislature (XIV, XVI, XVII e XVIII) per ben tredici volte (tredici!), sia pure in misura diversa (760, 758, 630, 600). Era prevista dalla riforma Berlusconi, dalla riforma Renzi-Boschi e ora dalla proposta M5S. E’ stata votata anche dal Senato, ma solo da esso, nella legislatura 2008-2013.

 

Pro. Camera e Senato meno pletoriche e più snelle. Modestissimi risparmi immediati, più significativi risparmi di spesa a regime. Processi parlamentari (legislativi, di indirizzo, di controllo, di informazione) più snelli e rapidi (basti pensare alle votazioni nominali sulla fiducia; o alle Commissioni con composizione ridotta). Potenzialmente minor frammentazione. Potenzialmente ristabilimento di un rapporto migliore fra opinione pubblica e politica nazionale. Un argomento in meno per l’antipolitica. Una innovazione fatta, finalmente. La conseguente estensione del diritto di voto a tutti i cittadini maggiorenni al Senato (oggi non è eletto a suffragio universale, in violazione del principio democratico).

 

Quesito referendum 29 marzo 2020. Eccolo: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari“, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana – Serie generale – n° 240 del 12 ottobre 2019?»

 

Raffronti con altri paesi. Se ci teniamo alla sola Europa e ai soli paesi “grandi” (Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Spagna – nell’ordine) si vede che nessuno ha tanti parlamentari direttamente eletti come l’Italia, oggi. Dopo la riforma, la sola Spagna ne avrebbe di più (in rapporto alla popolazione). La Francia che ha un Assemblea nazionale di 577 componenti pensa di ridurli: il governo ha proposto 404, il Parlamento si orienta verso 424. Va anche aggiunto che le Camere italiane sono le più “costose” fra tutte anche in termini assoluti.

 

Referendum costituzionale, confermativo o oppositivo. E’ quello del 29 marzo 2020. Previsto dall’art. 138 Costituzione al comma due, si tiene a richiesta nei soli casi in cui una legge di revisione costituzionale sia votata da meno di due terzi dei componenti di ciascuna camera. Non richiede quorum di validità (vincono comunque i “sì” o i “no”, quale che sia il numero dei partecipanti). Ne abbiamo già avuti tre: nel 2001 (revisione del titolo V° sui rapporti Stato-Regioni: prevalse il “sì” con partecipazione del 34.1%), nel 2006 (riforma Berlusconi, prevalse il “no” con partecipazione del 52.4%), nel 2016 (riforma Renzi-Boschi, prevalse il “no” con partecipazione del 65.5%). E’ del tutto diverso dal referendum abrogativo il quale ad oggetto una legge o parte di legge e per la validità richiede che partecipi un elettore più della metà degli aventi diritto.

 

Revisioni costituzionali connesse. In base agli accordi fra M5S e Pd (e alla ragionevolezza) sono all’esame del Parlamento altre proposte di revisione puntuali, coordinate con questa, sulle quali sono da escludersi referendum. Si tratta dell’estensione a tutti i maggiorenni del diritto di eleggere i senatori (oggi limitato a chi ha compiuto 25 anni: un’intollerabile violazione del principio democratico a danno dei giovani, relatore Stefano Ceccanti alla Camera). Inoltre si ipotizza di ridurre il numero dei delegati regionali che concorrono all’elezione del presidente della Repubblica, da 58 quanti sono oggi a 39 (in ossequio alla proporzione). Infine si pensa di modificare le circoscrizioni senatoriali per permettere di unire in una sola circoscrizione più regioni al fine di aumentare il numero degli eligendi all’interno della circoscrizione (oggi rigidamente regionale).

 

Revisioni regolamentari conseguenti. Ciascuna camera dovrà ragionare sul se e come riorganizzare i propri lavori e sul se e come rivedere il numero di parlamentari necessari per attivare questo o quel potere. Per esempio: oggi alla Camera ci vogliono 20 deputati per costituire un gruppo. Si lascia questo numero (che ora corrisponde al 5%) o lo si abbassa? Al Senato ce ne vogliono 10 (stesso discorso). Inoltre oggi ciascuna camera ha ben 14 commissioni permanenti: le si lasciano così come sono? In questo caso si ha una media di circa 28-30 deputati e di circa 14-15 senatori per commissioni. Oppure si coglie l’occasione per rivedere le competenze e ridurle un po’: se ci si attestasse su dieci commissioni, il rapporto salirebbe a 40 deputati e 20 senatori per commissione (va considerato che circa 50-60 parlamentari vanno al governo, per esempio). Chiaramente la funzionalità dei due organi dipenderà dalla bontà delle soluzioni che saranno trovate.

 

Riduzione dei parlamentari e forma di governo. In linea teorica la riduzione del numero dei parlamentari e potenzialmente dei gruppi parlamentari potrebbero aiutare la stabilità del rapporto fra maggioranza e governo. Tuttavia non ci sono da farsi al riguardo grandi illusioni: non tanto perché i comportamenti centrifughi fanno parte da sempre della cultura politica italiana quanto perché finché le camere restano due ed entrambe titolari del rapporto fiduciario, e finché la legislazione elettorale resta a prevalenza proporzionale (o addirittura diventa integralmente proporzionale) la stabilità resterà un mito (com’è del resto, ormai, in quasi tutti i regimi parlamentari europei, con la parziale eccezione di quello britannico e di quello francese: quest’ultimo del resto a forte prevalenza presidenziale).

 

Riduzione dei parlamentari e forma di stato. Per forma di stato ci si riferisce qui al rapporto centro-periferia. Dal 1970 e ancor più dalla riforma del 2001, l’Italia è un ordinamento nel quale rilevanti competenze anche legislative sono attribuite a 19 Regioni e 2 province autonome. Quindi quando si ragiona di rappresentanza e di rapporto fra il cittadino e chi appunto la rappresenta occorre tener conto che – oggi – accanto ai 945 parlamentari vengono eletti 884 consiglieri regionali. Se la si vede sotto questo profilo abbiamo in Italia, oggi, un legislatore ogni 33.000 persone; ne avremo domani, dopo la riduzione, uno ogni 40.700. Non mi sembra poco.

 

Saperne di più… Un ottimo compendio di analisi e di opinioni (pro e contro) la riduzione è stato pubblicato da un folto gruppo di studiosi coordinato da un costituzionalista dell’Università Scuola superiore Sant’Anna. Lo raccomando a chi vuole approfondire: vedi, Emanuele Rossi (a cura di), Meno parlamentari, più democrazia?, Pisa, Pisa University Press, 2020 (scritti di Addis, Biondi Del Monte, Bressanelli. Carrozza, Casamassima, Cerrina Feroni, Conti, Curreri, Delledonne, Fusaro, Gori, Luciani, Marchetti, Martinico, Napoli, Pacini, Palanza, Pertici, Poggi, Rossi, Santini, Tarli Barbieri, Violini, Vivaldi). Vedi: https://www.pisauniversitypress.it/scheda-libro/emanuele-rossi/meno-parlamentari-piu-democrazia-978-883339-3285-575657.html

 

Scioglimento delle camere. Alcuni sostengono che una volta confermata ed entrato in vigore la revisione, le camere risulterebbero “delegittimate” e che esse andrebbero sciolte. Con ogni evidenza è una tesi senza il benché minimo fondamento giuridico. Quanto all’eventuale fondamento politico anch’esso è inesistente: al contrario, un Parlamento che avrà trovato la forza di deliberare la riduzione della propria composizione, venendo finalmente incontro ad aspettative da lungo tempo manifestate da gran parte dell’opinione pubblica e delle forze politiche (queste, per una volta, ancor prima che la questione diventasse tanto popolare) sarà ancor più legittimato a proseguire la legislatura (salvi incidenti di percorso del tutto indipendenti dalla riduzione).

 

Sistema elettorale. Al di là della formula elettorale (l’algoritmo per la trasformazione dei voti in seggi) comprende altri aspetti cruciali come l’ambito ovvero la dimensione del collegio e delle circoscrizioni in cui i candidati vengono candidati, votati ed eventualmente eletti. Ciò spiega anche perché la riduzione suggerisce una verifica della compatibilità della legge elettorale vigente con essa. Su questo vi sono opinioni divergenti che dipendono sia dalle priorità perseguite (rapporto elettori-eletti, costi campagne elettorali, governabilità, frammentazione o accesso esteso al maggior numero di forze politiche possibili, eccetera) sia dal quadro delle presunte convenienze di ciascuna forza politica (alla destra, ora, piacciono formule maggioritarie, alle forze della maggioranza M5S-Pd-IV-Leu piacciono formule proporzionali; poco tempo fa era l’opposto).

 

Suffragio universale. Nella definizione della Treccani, si ha «s. universale quando il diritto di voto è attribuito a tutti i cittadini che abbiano raggiunto una determinata età (di solito la maggiore età), senza essere subordinato ad altre condizioni di carattere economico o culturale». Da noi è universale alla Camera dei deputati, ma non al Senato (dove si vota solo a 25 anni compiuti, quattro milioni e quattrocentomila elettori in meno). Ci sarà se il Parlamento vara la legge costituzionale attualmente all’esame.

 

Votare “sì” o votare “no”. Sì, senza grandi aspettative, senza grande entusiasmo, ma anche senza alcuna esitazione. Votare “no” proprio non si può.

 

 

 

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