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Riforma dello Statuto: si prepara la fine del Pd

Alberto De Bernardi giovedì 11 Luglio 2019
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di Alberto De Bernardi

 

Sono tra gli iscritti del Pd eletto tra i membri dell’assemblea nazionale che è stata convocata il 13 con all’ordine del giorno la nomina della commissione della riforma dello statuto.

 

La separazione tra segretario e candidato premier

Però si apprende dai giornali che Martina, il presidente designato, ha convocato un’altra commissione da lui istituita – probabilmente con Franceschini e Smeriglio – che è già arrivata alle conclusioni politiche: nel corpo di una intervista che somma l’insieme di chiacchiere sulla partecipazione, sul ruolo dei circoli, sul rapporto con gli elettori, detta e ripetuta in ogni occasione nella ormai decennale vita del Pd, cala il carico della separazione tra segretario e candidato premier.
E se non ho mal capito verranno presentate all’assemblea e forse passate ai membri della commissione ufficiale perché le approvino, con il sostegno di uno sparuto drappello di intellettuali, tra cui spicca la presidente dell’Arci.

A questo punto mi chiedo: che ci vado a fare a Roma, perdendo tempo e denaro?

Perciò ho deciso di dare anche io alle stampe il mio pensiero, che sicuramente non avrei potuto dire il 13, sulle umili pagine di Facebook, e non certo in quelle di una grande giornale come l’ineffabile Martina.

Uno statuto è in piccolo una costituzione: se ne togli/cambi dei pezzi nei suoi assi portanti casca tutto e quello che ne esce è il profilo di un’altra istituzione/partito.

 

La regressione del partito a vocazione maggioritaria

Il Pd è nato sul nesso tra primarie, vocazione maggioritaria, unicità della carica tra candidato premier e segretario: se si toglie l’ultimo tassello, non ha senso il primo – perché dei cittadini dovrebbero eleggere il segretario di un partito a cui non sono iscritti sapendo che non stanno scegliendo il capo del governo possibile? – e si perde per strada anche il secondo: il pd diventa un partito a vocazione minoritaria, che rappresenta la sinistra – che ovviamente nessuno sa cosa sia, davvero, men che meno il gruppo dirigente del Pd – obbligato ad allearsi con forze di altra natura e tipologia per puntare al governo del paese.

Perché è il governo il nodo di quello statuto: quei tre elementi definiscono un partito che trova nel governo il baricentro del suo agire politico. Uscirne significa mettere in discussione ciò che il Pd voleva essere e che forse solo nei governi dell’ultima legislatura è stato: un partito della nazione.
D’un colpo ritorniano al 2006 con la coalizione arcobaleno, con un similcapo (molto più simile a Conte che a Prodi del 1996) impotente che tutti i giorni deve smentire le dichiarazioni dei suoi ministri, che non riesce a governare, e un segretario del Pd che deve sminare ogni centimetro del percorso governativo e rassicurare i suoi iscritti e i suoi elettori che questo è il migliore dei mondi possibile.

 

Il (ridicolo) primato della coalizione e il ritorno dei Ds

Inoltre aggiungo che se questa regressione a “vent’anni prima” e fatta nel nome del primato della coalizione è ancora più ridicola per due motivi: già lo statuto prevede le primarie di coalizione; oggi a differenza di allora la coalizione non c’è. Il coalizionabile in termini di partiti e movimento organizzati è al 95% già “coalizionato” dentro il Pd e fuori non c’è nulla (tranne la chimera 5S che non a caso Prodi continua a evocare). Certo c’è il 40% di cittadini che non votano, che sono appunto gli interlocutori di una forza maggioritaria guidata da una leadeship solida e legittimata.

La proposta Martina è dunque la fine del Pd e il ritorno al passato dei Ds con qualche capocorrente democristiano: il posto dove, putroppo, la maggioranza del congressisti, riconoscendosi nella mozione di Zingaretti, ha deciso di collocare il partito. Speriamo però che a un anno da quella infausta decisione, che ha prodotto ben scarsi risultati, le anime riformiste che esistono in gran numero abbiano la forza e il coraggio di bloccare questo disegno pericoloso non solo per il Pd ma per il paese.

 

Come si riforma il partito

Eppure è chiaro cosa dovrebbe fare una commissione di riforma del partito:

1) Progettare come coinvolgere quei milioni di persone che hanno votato e votano alle primarie e che sono i veri desaparecidos della storia del Pd, anche se noi sappiamo chi sono visto che hanno lasciato tutti i loro recapiti in più di una occasione;

2) definire come coinvolgere chi ci da il 2 per mille che sono il doppio (o forse il triplo) degli iscritti del pd.

Queste sono le forze reali – non il “popolo della sinistra” che non esiste – a cui bisognerebbe rivolgersi costruendo una forma partito in grado di accoglierle e valorizzarle: certo cadrebbero molte condizioni di riproducibilità degli attuali gruppi di comando, basate sulla autoreferenzialità che regge se il partito è una organizzazione chiusa e asfittica basata su iscritti che in gran parte non esistono nemmeno, e circoli in buona parte chiusi.

3) dare vita al governo ombra, al posto di una inutile segreteria notabilare, che non tocca palla, se non nei giochetti interni. Per farlo però bisogna avere una linea politica sui principali dossier politici. Ma il Pd “campo largo” non ha quasi nessuna proposta sui temi caldi del dibattito politico e se c’è l’ha se la tiene ben stretta perché non si sciupi.

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