di Luigi Gentili
Intervento all’assemblea nazionale Orvieto2018
Quello che oggi stiamo vivendo è un vero e proprio “stallo” istituzionale. Mancano le decisioni, quelle fondamentali, capaci di dare un senso ed un orientamento alla crisi istituzionale che ci circonda. Attualmente, con la globalizzazione, l’economia corre più veloce della politica e quest’ultima, non riuscendo a stagli dietro, si blocca. E’ l’era del disordine, dell’entropia. In uno scenario economico del genere, dove la complessità si combina con il caos, sappiamo cosa succede: la società si polarizza. Crescono le disuguaglianze, non solo quelle legate al reddito delle persone e delle famiglie, causa prima del “collasso” della classe media. Crescono anche le disuguaglianze imprenditoriali. Da una parte poche imprese e pochi sistemi territoriali, che innovano e progrediscono, dall’altro una moltitudine di aziende e aree territoriali che rimangono arretrate e ai margini della crescita.
Una seria politica economica
Indubbiamente, oggi più che mai, occorre una seria politica economica, in grado di rimettere in moto gli investimenti pubblici. Solo in questo modo è possibile recuperare il gap produttivo che penalizza il nostro sistema economico. Una domanda è però imminente: quale politica economica adottare? Si torna sempre più spesso a parlare del keynesismo, preso alla lettera, nelle sue impostazioni generali. Siamo sicuri il keynesismo, applicato così come viene riproposto da molti nuovi adepti, risolva i problemi odierni? La risposta lascia un ampio margine di riflessione. Keynes viene strumentalizzato, e questo per una ragione precisa. La spesa pubblica in deficit, sostenuta in modo indiscriminato, da sola non serve. Il keynesismo, nell’accezione di statalismo miope, non è sufficiente per rimettere in moto l’economia. La ragione? Siamo entrati in una fase economica particolare, dove il debito pubblico è cresciuto enormemente. L’economia italiana è un’economia debitoria.
Con il debito pubblico superiore ad un certo livello, il moltiplicatore keynesiano, ovvero la capacità di creare sviluppo a partire da alcuni investimenti pubblici iniziali, non funziona più. Anzi, c’è il rischio di accrescere ulteriormente il debito stesso, alimentando un circuito negativo di regressione. La politica economica deve guardare anche altre strade.
La lezione di Einaudi
Da questo punto di vista, torna utile la lezione di Luigi Einaudi, l’economista italiano oggi dimenticato sia dalla politica che dalle università. Einaudi, riformista progressista, di sinistra, ci lascia un messaggio importante: per sostenere lo sviluppo economico, oltre ad incentivare gli investimenti occorre simultaneamente tagliare la spesa improduttiva. Einaudi si riferiva alle rendite, ai privilegi e alle pacchie assistenzialiste, al livello diffuso. E’ questa una lezione della massima attualità. Tagliare la spesa improduttiva significa separare ciò che può apportare dei benefici per la collettività, sostenendolo, da cosa invece è un costo inutile – disincentivandolo -.
Nella situazione attuale, strumentalizzare Keynes, è fuorviante. Chi propone di rilanciare la spesa pubblica senza toccare i costi dell’improduttività, adotta una semplificazione ingenua. Si alimenta infatti una delle tante forme di riduttivismo interpretativo, utile per attirare consenso nel breve periodo ma deleterio nel medio e lungo termine.
Il riduttivismo keynesiano
Tra l’altro, il riduttivismo keynesiano, se sostenuto al livello nazionale, ci allontana anche dai Paesi virtuosi dell’Europa. Ci fa apparire all’estero come degli spendaccioni inconcludenti, poco credibili e inaffidabili. Non ci da credito, affossando anche quel margine di fiducia necessario per rafforzare le partnership europee. Il nostro Paese, se vuole riposizionarsi al livello competitivo, deve puntare su una politica economica che non si limiti ad ampliare le spese fine a se stesse, ma che punti a rilanciare gli investimenti che generano il benessere. Solo così si crea lo sviluppo e l’occupazione, ovvero il progresso economico e l’uguaglianza sociale, i pilastri del riformismo economico.