di Carlo Fusi*
Draghi a palazzo Chigi fino al 2023, ha scandito ancora una volta Enrico Letta chiudendo il festival nazionale dell’Unità. Ancora una volta eludendo il resto del ragionamento: con quale maggioranza garantire l’obiettivo. Tagliare quel traguardo temporale mantenendo l’attuale di larghe intese, significa governare con Matteo Salvini ancora un anno e mezzo.
L’interrogativo è se è possibile farlo polemizzando giorno dopo giorno con il capo della Lega – senza alcuna indulgenza nei suoi confronti: il no al Green pass è aberrante come pure tante altre impuntature: ma ognuno si sceglie le politiche che vuole – e ribadendo di voler essere il baluardo contro una destra giudicata “estrema” con la quale tuttavia, con una torsione altrettanto estrema, si dovrebbe collaborare per attuare il più grande impianto riformistico del dopoguerra. Sarà così o c’è un’altra strategia che il segretario del Pd nasconde?
Senza dimenticare l’altro passaggio decisivo: l’elezione del nuovo capo dello Stato. Letta punta tutto su un bis di Sergio Mattarella, il quale però continua ad escluderlo. Ma al di là del fatto che anche la permanenza non risolve la questione della maggioranza obbligatoriamente di larghe intese se non altro perché SuperMario – e tanto meno l’eventualmente rieletto Mattarella – non ne accetterebbe un’altra diciamo più ristretta; se davvero bisognasse scegliere un’altra figura a votarla dovrebbe essere sempre la coalizione che unisce Salvini a Conte passando per Renzi nonché appunto Letta, visto che la possibilità che esista una maggioranza per il Colle e un’altra per il governo è “un equilibrio sopra la follia”, come canterebbe volentieri Fiorella Mannoia. E volendo rigirare il coltello nella piaga: quale altro personaggio dotato di autorevolezza e spessore potrebbe mettere d’accordo i contraenti dell’unità nazionale diverso da Draghi?
Bene, e dunque? Dunque si conferma che paradossalmente il pilastro più barcollante della maggioranza continua ad essere il Pd. Il quale formalmente avverte che quello del presidente del Consiglio “è il nostro governo” e il suo programma il manifesto riformista del Nazareno, così respingendo le nuances di Goffredo Bettini; ma dall’altra parte, come ha puntualizzato il renziano Luigi Marattin al convegno di Orvieto di LibertàEguale – diciamo per comodità i miglioristi del Pd – punta tenere insieme nello stesso partito Provenzano e la Tinagli, figure strategicamente distanti anni luce se non addirittura incompatibili.
E a proposito di Orvieto. Il leader dell’associazione, Enrico Morando, ha invitato tutti, a partire ovviamente dal Pd, ad uscire dal riformismo conservatore; il costituzionalista Stefano Ceccanti ha spiegato che può e deve esistere un approccio riformista “che non scambia la fedeltà all’ispirazione ideale col conservatorismo degli strumenti”, mentre la stoccata più incisiva l’ha data Umberto Ranieri stigmatizzando “la sbandata culturale” che ha investito il Pd nella scelta dell’abbraccio con il M5S.
E’ utile citare Libertà Eguale perché chiarisce i termini del confronto in atto nel Partito Democratico, dialettica che investe il core business del draghismo senza limitismo al grido di “se non ora quando” sulle riforme. Una delle analisi più lucide l’ha fatta l’ex presidente Rai Claudio Petruccioli respingendo l’idea che il ritorno del bipolarismo che tanti agognano possa configurarsi come una competition tra il blocco di destra formato da Salvini e Meloni e quello “laburista” alla Corbyn imperniato su Bettini e Giuseppe Conte. Questo perché nel mezzo resterebbe una prateria formata dai tanti italiani che si riconoscono nel modo in cui SuperMario governa, nel suo stile oltre che nel suo cronoprogramma, e che paradossalmente in un simile scenario resterebbero politicamente afoni in quanto privi di rappresentanza.
Si tratta dell’area draghiana: chi la raggruppa, quale leadership se la intesta, chi può amalgamarla per dotarla di gambe su cui marciare è il quesito di fondo che non solo il Pd ma principalmente il Pd evita di affrontare. Senza dimenticare che nodo dell’implementazione di una stagione finalmente genuinamente riformista si porta appresso anche quello della scelta da parte dei cittadini di quale schieramento intendono premiare: un’opzione che per forza di cose rigetta il meccanismo di una legge elettorale proporzionale a favore di un bipolarismo maggioritario. Chi ci starebbe?
Insomma si tratta di comprendere che la scelta di Draghi e il suo profilo governativo hanno mutato le coordinate della politica italiana e sarebbe ora che tutti ne prendessero atto. Sia perché scadenze fondamentali si avvicinano, sia perché l’attuazione del Pnrr sconta decine di riforme da avviare. E continuare a cuor leggero nella schermaglia interna alla maggioranza pensando che tanto “ci pensa Draghi” non solo è preoccupante segno di infantilismo politico ma minaccia di portare a schiantarsi.
Rimanendo al Pd, allo stato la preoccupazione principale di Letta, che poi è il compito fondamentale di ogni segretario, è quello di tenere unito il partito, evitando di scegliere tra l’una e l’altra componente. Ma è un galleggiamento che non potrà durare a lungo. Anche la scelta, meritoria, di schierasi dalla parte dei diritti deve fare i conti con i rapporti di forza in Parlamento e le intenzioni del premier. Deplorare gli altolà della Lega è legittimo e sul fronte vaccinatorio perfino doveroso. A patto di non minare sotto traccia il percorso del presidente del Consiglio.
*Articolo pubblicato sul Quotidiano del Sud del 14 settembre 2021
Carlo Fusi, nato nel 1955, è giornalista parlamentare, editorialista del Quotidiano del Sud. Comincia al Globo e all’Ansa, nella redazione politico-parlamentare. Dal 1988 al 2014 al Messaggero nel servizio politico come cronista, analista, commentatore. Inviato in alcuni dei più importanti avvenimenti internazionali, compreso l’attacco alle Torri Gemelle del settembre 2001. Dal 2019 al 2021 è stato il direttore de Il Dubbio.