di Ranieri Bizzarri
Giovanni Orsina è un intellettuale molto acuto. Qualche giorno fa ha rilasciato un’interessante intervista. In essa, Orsina focalizza alcuni temi che la destra conservatrice dovrebbe raccogliere per stabilire una duratura egemonia culturale sulla nostra società. Non senza un briciolo di divertita faziosità, Orsina inizia la sua analisi a partire dal recente Festival di Sanremo, utilizzandolo come una specie di cartina al tornasole della sterile radicalità di molta sinistra italiana. Ma poi il discorso si allarga, e diventa assai più generale. Di seguito, cerco di riassumere per punti i principali temi sollevati dal politologo romano.
Fin qui, sono cose abbastanza classiche nel dibattito politico e sociologico. Un bel libro di Luigi di Gregorio, Demopatia, ne dà ampia descrizione. E la crisi della cultura narcisista e legata alla sola immagine comincia negli anni 70, dagli scritti di Lasch e Postman. Ma Orsina si spinge più in là, e fa una affermazione che merita riportare quasi parola per parola. Il politologo prima si pone il dubbio che le consuete parole tradizionaliste della destra (Patria, orgoglio nazionale) siano davvero efficaci, perché la “tradizione” è stata decostruita irreversibilmente. “Il valore su cui ricostruire è, forse, un dato antropologico di base. Gli esseri umani chiedono identità, chiedono comunità. In fondo, il populismo esprime una ribellione contro questo eccesso di liquidità, di fluidità, di globalizzazione. […] Per ripartire, bisogna provare a chiedersi di cosa hanno veramente bisogno le persone in questo mondo destrutturato.” E successivamente, citando Simon Weil, Orsina tira in causa i “bisogni vitali dell’animo umano”, tra cui inserisce “il bisogno di radicamento”.
Questa risposta ha catalizzato una serie di pensieri che da tempo rimuginavo, seppur in forma abbozzata. Da scienziato che lavora anche nel campo dell’evoluzione, e che ha necessariamente curiosità dei paralleli tra biologia e sociologia/antropologia, i bisogni vitali dell’animo umano non mi sembrano né un concetto peregrino, né necessariamente da far gestire a qualche entità trascendente. Un grandissimo biologo, Edward O. Wilson, ha mirabilmente condensato in un libro (“Sulla Natura Umana”) una riflessione sugli effetti della nostra incomprimibile natura biologica. Alcuni di essi sono quasi banali: il taboo dell’incesto nelle nostre società corrisponde all’esigenza di non mescolare geneticamente consanguinei, una situazione che porta a malattie e disfunzioni anche molto gravi. In altri, il mix di aspetti biologici e culturali non è facilmente separabile. Ad esempio, l’innata propensione di ciascuno di noi alla giustizia egualitaria a livello distributivo potrebbe essere un retaggio dell’epoca in cui i nostri progenitori vivevano in piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori, e l’equipartizione delle risorse alimentari era condizione fondamentale per la stabilità sociale di questi gruppi.
In buona sostanza, c’è un’ipotesi molto forte che ogni sistema sociale si debba confrontare col prodotto di millenni di evoluzione della nostra specie, e che questo confronto possa produrre una tensione a livello profondo. Ma anche se questa ipotesi fosse largamente esagerata (e non credo lo sia), penso che sia dovere di ogni intellettuale porsi la domanda: quali sono gli elementi che, in un certo presente, stabilizzano una società?
Non ho risposte, sebbene l’idea di Orsina (ed altri) di includere identità e comunità tra questi elementi mi appare molto credibile. Quello che Orsina propone è tuttavia ancora più sottile: la destra politica si faccia carico di questo bisogno antropologico, per stabilire un’egemonia culturale a lungo termine. E per quanto Orsina possa anche risentire (forse) delle sue preferenze politiche, quello che capisco dal suo discorso è: la destra è più attrezzata a rispondere a questa domanda nel mondo attuale, stante il fallimento della sinistra, passata da marxista a radicale di massa. E senza stabilizzazione della società si aprono le porte al caos.
Scendendo sul piano politico, tuttavia, viene da chiedersi come la destra conservatrice possa contemporaneamente ambire a “stabilizzare” la società attraverso un’idea di comunità e identità, e contemporaneamente garantirne il suo necessario avanzamento. Il progresso si è sempre legato ad una modificazione dei paradigmi sociali. E l’idea di fondo della sinistra non massimalista, ovvero permettere ad ogni cittadino di ricercare la propria felicità libero dal bisogno, mantenendo al contempo un contesto sociale cooperativo, mi sembra sia tuttora un approccio laico al problema. Anche biologicamente, le comunità iperstabili (es: gli insetti sociali) si basano solo su una larga condivisione genetica. Gli esseri umani sono tra loro tutti diversi, e anche il dato antropologico di ricerca di comunità deve tener conto dell’incomprimibile individualità di ciascuno di noi.
Sfortunatamente, la sinistra attuale sembra in molti aspetti aver perso la bussola. In parte prova a sostituire alla Rivoluzione un qualche altro fumoso obiettivo di palingenesi sociale (“il nuovo modello di sviluppo”), in cerca di una metafisica laica. Le religioni, intelligentemente, collocano la loro metafisica al di là di ogni ragionevole aspettativa di vita dei credenti. Purtroppo, questa opzione non è disponibile al legislatore terreno. Oppure contesta in maniera obliqua alcuni elementi che appaiono imprescindibili per coniugare stabilizzazione e progresso sociale. Ad esempio:
Vi sono al contempo pratiche politiche che, inevitabilmente, hanno effetto opposto, destabilizzando la società e portandola a chiudersi nel recinto del solo esercizio dell’identità, gestita dalla destra. Alcuni esempi:
In buona sostanza, condenserei i due punti sopra nella ineludibile necessità di smettere di giocare agli apprendisti stregoni nel dibattito pubblico, identificando soluzioni semplificate ai bisogni reali di una società.
Orsina usa Sanremo per farsi capire. Io tiro in causa l’approccio di personaggi come Elly Schlein, icona della sinistra radicale e massimalista. Rifiutarsi di capire che la società è complicata e i cittadini sono adulti, leggendo loro solo il messale del cambiamento che unisce moralità a sedicente futura ricchezza materiale, favorisce inevitabilmente la consapevolezza che solo la destra è capace di interpretare i bisogni profondi della società. Per questo occorre riflettere prima di parlare. E per questo ritengo che la sinistra massimalista non sia solo sterile politicamente, ma anche estremamente diseducativa a livello sociale.
Purtroppo anche la sinistra riformista ha le sue colpe. A mio avviso, la peggiore è l’idea che si possa pescare a strascico, ovvero digerire “i barbari” come fecero (apparentemente) i romani, in nome di un sedicente consenso elettorale del qui ed adesso. I risultati si vedono. Posso forse scusare i politici, che pragmaticamente legano permanenza nelle istituzioni ad un’azione -anche minima- in senso positivo in seno alla società. Come intellettuali, tuttavia, ci siamo ultimamente fatti dare la linea da un comitato di esagitati che, con la scusa dell’unità contro le destre ed un sedicente consenso pubblico, ha portato più di uno di noi a blaterare di neoliberismo e altre sciocchezze.
I massimalisti non sono riconducibili a riformisti che sbagliano. Senza un’OPA sul mondo progressista, costi quel che costi, anche per il ragionevole approccio riformista l’impresa di cambiare in meglio la società si rivelerà proibitiva. La vocazione maggioritaria richiede un’idea maggioritaria, non la giustapposizione di due approcci incompatibili.
Laureato e dottorato in Chimica, è Professore associato di Biochimica all’Università di Pisa. E’ stato Research Fellow in USA, Francia e Olanda. Si occupa di processi biochimici alla base dello sviluppo dei tumori. Fa parte della Presidenza Nazionale di Libertà Eguale