di Alberto de Bernardi
E’ cominciato il circo Barnum del congresso del Pd con la discesa in campo del “partito di Repubblica” che ha deciso di sostenere Zingaretti e il ritorno alla sinistra come era prima che assumesse la leadeship del partito Renzi e si assumesse il compito gravosissimo, e purtroppo in parte abortito, di fare del Pd quel partito liberalsocialista di stampo europeista e riformista tracciato al Lingotto nel 2008 e mai realizzato effettivamente.
Per la vecchia sinistra in campo il “partito di Repubblica”
L’operazione è condotta nel perfetto stile della testata. In prima istanza vengono chiamati al lavoro un manipolo di intellettuali di sinistra “quella vera” che lanciano un po di parole d’ordine fumose ma dotate di un potere evocativo indubbio:
I padri nobili per l’unità della sinistra…
Poi il botto! Arruolare in questa battaglia il padre nobile del Pd, Veltroni, il fondatore, collocato nell’empireo dei grandi pensatori della sinistra europea, che dall’alto del suo ruolo super partes propina il nuovo ordine ideale della rinascita e della rifondazione: via Renzi e la rottamazione, roba berlusconiana, per tornare alla “sinistra” di sempre che recupera il suo “popolo”, caduto per colpa dell’odiato fiorentino nelle braccia di Salvini e Di Maio, e si avvia a un futuro glorioso di una grande battaglia contro la destra.
A questo punto entra in scena l’altro fondatore, Scalfari, che dell’alto della sua condizione di testimone della Repubblica, costruisce una storia utile a questa operazione: mette insieme una discutibile genealogia di padri della patria per segnalare le basi ideali di questi ritorno al passato dopo l’ubriacatura renziana. Sarebbe fin troppo facile dimostrare l’inconsistenza di questa ricostruzione, le rimozioni, le assenze, la superficialità di cui è sorprendentemente intessuta.
Ma è inutile, perché questo excursus mal congegnato serve solo per dare una presunta profondità storica all’ultima versione del “veltronismo”, quella del ritorno alla ditta, dell’esaltazione dell’“unità a sinistra” della cancellazione del populismo sovranista come antagonista mondiale della sinistra democratica e della riscoperta consolatoria della destra xenofoba e un po’ fascista.
Infine l’intervista al “candidato” Zingaretti per tradurre questa melassa ideologica presentata come un potente laboratorio di idee, in proposta politica, in programma per il congresso.
Sbagliare nemico per subalternità culturale
Ma al di la dei limiti di Zingaretti (è un buon amministratore, non un leader), questa operazione non riesce perché lo statuto politico di questa costruzione ideale e politica è debole, per non dire inconsistente: si lancia contro un nemico facile, la xenofobia salviniana, che può consentire forse di recuperare consenso, ma soprattutto di riaggregare pezzi di ditta finiti in Leu e dintorni, pagando però il prezzo altissimo di rinnegare l’azione dei governi Renzi-Gentiloni, cacciandoli nel campo della damnatio memorae, per non combattere quello vero, il populismo nazional-socialista dei 5S, negandone perfino l’esistenza.
Questo travisamento, esiziale in politica – sbagliare nemico per subalternità e ambiguità – è poi condito da alcune frasi fatte – parlare al “popolo della sinistra” , tornare “tra la gente”, partire “dai territori” – che aggravano il profilo retrò di questa mobilitazione conservatrice. Tutti questi soggetti dovrebbero ricordare che in nome delle stesse evocazioni vuote di contenuti le minoranze del Pd hanno combattuto Renzi e il suoi governi fino a organizzare una scissione, dopo aver contribuito alla sconfitta referendaria, che però ha subito il 4 marzo una sconfitta ancor più dura del Pd, ma della quale ormai nessuno parla più e nessuno si comoda per intimare anche a Bersani, d’Alema e Speranza “l’analisi del voto”: quel popolo che si era distaccato dal Pd perché il partito “dei Parioli” non si è materializzato a sinistra e si è ben guardato di correre sotto le bandiere di Grasso e Boldrini, ma si è orientato a astenersi o a sostenere in larga misura i 5S, regalandoci un esempio di scuola dell’eterogenesi dei fini.
Non esiste il “popolo di sinistra”
Nonostante il tema resti stucchevolmente ricorrente nella narrazione delle minoranze del Pd, non esiste un “popolo” di sinistra che si sposta sempre uguale a se stesso in diverse case politiche, cosi come non esistono altri popoli che si spostano di partito in partito a seconda che si riconoscano nelle proposte che essi fanno. Esiste invece il popolo, cioè la massa dei cittadini che si orienta in funzione delle offerte politiche e della percezione di dove sia meglio allocare il proprio voto in funzione dei propri interessi e le proprie passioni: la riconquista del “proprio popolo” è un mito politico della sinistra, che prima lo si abbandona e meglio è.
Ma la conquista del consenso “a sinistra” del M5S rimanda a un’altra questione assai più profonda.
Il vero nemico: il nazional-socialismo del M5S
Se una parte delle sinistra combatte una battaglia identitaria in nome di una tavola dei valori che evoca tutte le vecchie scelte ideologiche del passato – dal giustizialismo, ai cascami dell’egualitarismo, dalla” questione morale” a un radicalismo ambientalista fautore di una serie infinita di “NO”, da idiosincrasie antiglobaliste in nome della lotta contro il neoliberismo “delle mutinazionali” a una declinazione della protezione dei migranti e dei richiedenti asilo universalistica, che però fatica a misurarsi con le contraddizione che la mancata integrazione genera tra i ceti popolari affermando verità scomode – e che nei fatti individua nel riformismo il suo vero nemico, non c’è da meravigliarsi se poi tutto questo precipiti nella versione attuale e distorta di questa tradizione rappresentata dai 5S; se tutto questo precipita in un ribellismo plebeo, statalista, assistenzialista, antiscientista, nazionalista e populista che apprendisti stregoni, che siedono quasi esclusivamente a sinistra hanno prepotentemente alimentato cavalcando l’odio nei confronti della politica, della competenza, dell’Europa.
Impegnata a combattere Renzi, la “sinistra” ha assistito disarmata, quando non compiacente, alla formazione del nemico vero fino a trovarselo al governo, senza nessuna alternativa realistica da mettere in campo.
La minoranza del Pd che con l’appoggio di Repubblica vuole vincere il congresso si trova sostanzialmente disarmata. Avendo scelto di rinnegare l’unico progetto riformista che il partito aveva saputo elaborare in una esperienza di governo complessivamente positiva, nella convinzione errata di aver perso le elezioni per non aver seguito la deriva massimalistici della Cgil, diventata di fatto una formazione politica extraparlamentare, si trova di fronte a un bivio tragico:
Le contraddizioni di chi ha rinnegato il riformismo
In questo bivio stanno i veri “pop corn” che incautamente Boccia e Franceschini hanno attribuito a Renzi, indicandolo come fautore di una inesistente strategia dell’attesa e del disimpegno: al di la dei propositi roboanti ipotizzare l’alleanza con i 5S comporta infatti di non fare opposizione, delegando la strategia politica alla forza maggioritaria e di far sopravvivere il Pd in piccoli interventi di moderazione e di aggiustamento in una nuova e farsesca riedizione del consociativismo che ha rappresentato il centro propulsivo dei tanti guai che ancora l’Italia sta combattendo.
La vicenda Ilva ne è la tragica metafora: il segretario del Pd va davanti ai cancelli della fabbrica senza riuscire a dire una parola perché non può difendere la soluzione che il governo Gentiloni aveva prospettato, per evitare di contrapporsi alla Cgil e a piccole minoranze interne, ma soprattutto per non contrapporsi a Di Maio, forse nella recondita convinzione che un po’ di ragioni ce le abbiano quanti si oppongono al rilancio industrialista dell’area.
Si assiste così al paradosso ridicolo che il segretario del Pd, che non sa scegliere, dica a Di Maio di scegliere in fretta, cosi gli toglie le castagne dal fuoco e tutti i capi e i capetti possano tornare alla loro prevalente attività che consiste nel posizionamento interno. Se questo è l’antipasto della strategia di seminare contraddizioni nel campo del nemico si capisce dove andremo a parare: spiaggiarci some una vecchia balena mentre cerca di passare nella cruna dell’ago tra non “piegare il capo” di fronte allo scomodo alleato, senza perseguire uno “sterile rifiuto”, secondo la proposta di Morassut. Più che un progetto politico una performance teatrale, che testimonia che già discuterne ha prodotto subalternità politica.
Perché è un errore rimuovere il populismo come antagonista
La sinistra dentro e fuori dal Pd che ha trovato oggi in Veltroni il suo insospettabile corifeo dunque sbaglia a cancellare il populismo come l’effettivo antagonista politico. E questo errore ha almeno due gravi conseguenze.
La prima riguarda, come abbiamo già detto, confondere l’avversario principale o meglio limitarsi a identificare l’aspetto centrale della sua ideologia e della sua azione politica nella xenofobia e nella sua chiusura nazionalista, per preservare le condizioni di un dialogo con i 5S: la manifestazione contro il “governo dell’odio” è diretta conseguenza.
La seconda deriva dal fatto che da questo travisamento deriva l’impossibilità di fare i conti con le implicazioni che riguardano le culture politiche della sinistra presenti nel populismo nazionalsocialista: occultare tatticamente il nemico per giochi interni al Pd, impedisce strategicamente di riflettere sulle componenti profonde della propria tradizione politica e fare definitivamente i conti con la scelta riformista, che spesso è stata parziale quando non latitante. Basta osservare la deriva sovranista del nuovo movimento di Fassina e D’Attorre che vogliono scimmiottare Malenchon, combinando, sotto l’altro patronato intellettuale di Carlo Galli, classismo e nazionalismo (ci aveva provato già Bombacci negli anni Trenta), per cogliere a pieno le difficoltà di combattere la battaglia contro il populismo vincente in Italia e in parte dell’Europa, senza fare i conti fino in fondo sulle opache ambiguità che hanno attraversato la storia del Pd.
Se dalle culture politiche che hanno convissuto nel Pd fino a pochi anni fa emergono persino istanze “rossobrune” raccapriccianti, si delineano i termini politici della partita che si sta giocando nel campo progressista e democratico che non si risolve certo con il giochino di ricostruire una fantomatica maggioranza all’interno del Pd attraverso il richiamo alla sua identità popolare in chiave antiriformista.
Fare i conti con il progetto riformista di Renzi
Per uscire dall’impasse il pd deve fare i conti con il progetto riformista messo in campo da Renzi e dei governi a guida Pd, ampliandolo, precisandolo, correggendolo, per farne l’asse della sua proposta politica, invece che archiviarlo frettolosamente per aprirsi ad oblique alleanze anticipate dal “popolo” antirazzista della manifestazione di Milano.
Quel popolo esprime una legittima rabbia contro la xenofobia voluta da Salvini; guai invece se gruppi dirigenti improvvisati lo usassero per delineare i confini del campo di battaglia e i soggetti che dovrebbero farne parte, perché tra quei “combattenti” chiamati a una nuova opposizione ce ne sono molti del tutto inadatti a ridefinire un progetto di governo alternativo al populismo sovranista a partire proprio dalle politiche dell’accoglienza; e soprattutto perché in quel campo di battaglia non c’è il nostro principale nemico, che nessuno ha nominato in quell’occasione.
Questi sono i temi da discutere al congresso, evitando una gazzebata che lascia tutti i nodi nel pettine e si riduca a una grande ritorno dei caminetti tra capi corrente al posto “dell’uomo solo al comando”.
Professore di Storia Contemporanea all’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Presidente della Fondazione PER – Progresso Europa Riforme. Componente del Comitato scientifico di Libertà Eguale. Tra i suoi libri più recenti: “Fascismo e antifascismo. Storia, memoria e culture politiche”, Donzelli Editore 2018, e “Il paese dei maccheroni. Storia sociale della pasta”, Donzelli Editore 2019
Standing ovation!
Un partito che gira sempre su se stesso, i cui anticorpi reagiscono contro il riformismo