di Claudia Mancina
In un incontro organizzato a Roma il 6 ottobre scorso dall’Associazione Setteottobre – bello, partecipato, intenso, naturalmente non segnalato dai nostri pigri media – si è anche discusso il tema del nuovo antisemitismo e della sua differenza dal vecchio. In origine espressione razzista della destra più estrema, col tempo l’antisemitismo ha trovato cittadinanza anche nella sinistra e nella cultura democratico-liberale. Al punto che oggi ci troviamo di fronte a un inedito antisemitismo democratico, come lo ha definito Manuel Valls.
La nascita del sionismo
Come è stato possibile questo passaggio? Talvolta l’antisemitismo democratico si giustifica con l’antisionismo. La stessa nascita di Israele, togliendo alla figura dell’ebreo la rassicurante veste di vittima indifesa, appare così qualcosa di intollerabile: una nuova esperienza coloniale, una occupazione illecita di terre, come una violenza nel corpo della storia, che l’orrore della Shoah non basterebbe a giustificare. Eppure il sionismo, alla sua nascita alla fine dell’Ottocento, si iscriveva nel generale spirito democratico europeo; e molti sono stati anche i suoi legami con il socialismo. Oggi la situazione è diversa; i sionismi sono molteplici, e c’è anche un sionismo messianico, purtroppo presente con forza nell’attuale governo israeliano, che aspira a ricostruire l’antica Israele.
Non credo però che l’antisionismo si spieghi solo con queste considerazioni. Israele nel cuore del Medio Oriente viene visto come una testa di ponte occidentale, anzi americana: per questo viene colpito dal diffuso antiamericanismo e antioccidentalismo che alligna nello stesso Occidente, come un cancro che lo rode dall’interno. Senza vedere le assolute differenze tra democrazie e autocrazie, né quelle tra un governo democratico – che può sbagliare ed essere criticato o sostituito – e una organizzazione terroristica. Ma riconoscendo solo quelle tra supposti oppressi e supposti oppressori.
Le due fasi
L’esistenza di Israele finisce quindi per apparire come negazione dell’esistenza dei palestinesi, ignorando la violenza compiuta sul popolo palestinese da Hamas, che lo tiranneggia e si nasconde dietro di esso. E il sionismo diventa il nemico da battere, estendendo questo sentimento agli ebrei come tali, anche quelli della diaspora. Un tragico sviluppo che nega il diritto di Israele a difendere la propria esistenza e insieme nega la possibilità di una pace che veda la convivenza tra due Stati. Nell’incontro Ernesto Galli della Loggia – in un intervento felicemente provocatorio – ha provato a dare una spiegazione di questa evoluzione, distinguendo due fasi della storia democratica occidentale. La prima è quella che comincia con la Seconda guerra mondiale, e quindi ha dentro di sé un legame indissolubile con la Shoah. Una seconda fase sarebbe invece quella successiva al 1968, nella quale si è perso quel legame così forte perché si è girata la pagina della guerra, del suo conflitto essenziale per la libertà, e la coscienza pubblica si è rivolta altrove, a ideologie narcisiste, al politicamente corretto, alla cancellazione della storia propria della cultura woke.
Il quadro è un po’ esasperato; il ‘68 non ha portato solo questo, ma anche la fine di servitù familiari e di genere che non possiamo rimpiangere. Tuttavia l’osservazione che nella nostra storia occidentale c’è stata una cesura (da collocare forse, più che nel ‘68, nella fine della Guerra Fredda) che ha prodotto lo smarrimento del legame storico con l’ebraismo, è certamente molto interessante, e può aiutare a comprendere le sconcertanti novità dell’antisemitismo attuale.
Già docente di Etica all’Università “La Sapienza” di Roma, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Deputato dal 1992 al 1994 e dal 1996 al 2001 nel gruppo Pds/Ds, è membro della direzione nazionale del Partito democratico. Il suo ultimo libro è “Berlinguer in questione” (Laterza, 2014)