di Giorgio Armillei
È dal 5 dicembre 2016 che il Corriere della Sera trattiene a stento la sua paludata soddisfazione per la caduta del terzo tentativo – finita la prima fase della vita della Repubblica – di grande realignment della politica italiana.
La strategia del ‘Corrierone’
Cambiano contesti e protagonisti ma lo spartito è il medesimo. Come per Craxi, come in parte per Berlusconi, così anche per Renzi si suona la stessa musica: un sospiro di sollievo. Con la differenza che dopo Craxi si poteva disporre della pur vaga ricetta liberale di Berlusconi. Dopo Berlusconi era spuntata la sinistra liberale di Renzi. Dopo Renzi si ha a disposizione il populismo gemello di Lega e M5s. E tutto questo senza che nessuno degli editorialisti
A margine di un articolo di Antonio Polito
Tuttavia, nonostante il contesto editoriale, il ragionamento di Polito sulla prima pagine del Corriere del 19 settembre mette in fila molte osservazioni sensate accanto a una serie di domande alle quali il PD, ormai una specie di aggregato con poche somiglianze e molte dissomiglianze, deve tentare di rispondere se vuole sperare di continuare a rappresentare un’alternativa convincente al nazional-populismo.
Certo, piccoli passaggi velenosi non mancano neppure questa volta. Ad esempio: perché mai un governo non debba porre la fiducia su un disegno di legge in materia elettorale è un vero mistero quando sappiamo – da non poca letteratura – che le riforme istituzionali si fanno solo quando a guidare il gioco è il Governo e il Parlamento si trova di fronte a tempi certi e stringenti. Altro che grandi intese: per battere i poteri di veto ci vogliono metodi costituzionali ma non troppo inclusivi, per così dire. La strada intrapresa da Polito per interrogare il PD è però interessante: le mappe per orientarsi e la scelta tra le alternative che ogni bivio propone nel cammino appaiono invece meno convincenti.
La sinistra italiana in ritardo sulla svolta liberal
È indiscutibile che la sinistra italiana arrivi all’appuntamento con la svolta liberale della “sinistra di centro” con grandissimo ritardo. Clinton governava da quattro anni, Blair aveva appena vinto le elezioni e l’Ulivo in Italia affondava il rapporto Onofri sulla riforma del welfare, dimostrando quanto poco avesse fatto propria la cultura del riformismo liberale. Liberale e cristiano.
E qui Polito sembra omettere qualcosa di importante. Quella sinistra liberale della terza via che vinceva in Europa e negli Stati Uniti aveva nel suo dna il ruolo pubblico della religione. E quando perfino Habermas nel 2004 approdava ad un quadro di piena parità nella costruzione della ragione pubblica tra discorso religioso e non,dialogando con Ratzinger nel famoso colloquio di Monaco, la sinistra ancora ragionava di ingerenze e laicità. Se poi i cattolici praticanti votano Lega non ci si deve dimenticare, nel tentare di spiegarlo, delle ragioni remote.
Idee, leader e regole istituzionali
È indiscutibile anche che il PD rappresenti oggi un problema e non la soluzione per tutti coloro che intendono creare un’alternativa al governo nazional-populista.
Così come non si discute la verità di due delle questioni in cima alla lista delle sfide che il PD deve affrontare: quella delle nuove idee e quella dei nuovi leader. Idee e leader, ci dicono Rob Manwaring e Paul Kennedy in un recente libretto sulle sconfitte della sinistra in occidente, spiegano molto più di quanto si immagini. Molto più di quanto spiegano crisi economica e crescita delle diseguaglianze.
Senza dimenticare le regole istituzionali, quelle senza le quali – per dire – non avremmo Macron.
Dove dovrebbe andare il Pd? C’è un po’ di confusione
Buona dunque la partenza. Ma a questo punto dove si deve andare? Quali direzioni prendere al bivio, e ce n’è più d’uno, di fronte al quale si trova il PD? Come ci si orienta?
Qui Polito sbanda e finisce con il tornare alle vecchie certezze. La sinistra è quella che ascolta i deboli. La sinistra è quella che non mette insieme Marchionne con il sindacato, l’artigiano con la Fornero, i piccoli risparmiatori con i banchieri e così via. Insomma, la sinistra non può essere quella liberista degli anni novanta.
Ma – qui è il punto – per non esserlo finisce con il tornare ad essere quella del Novecento, quando tutto era più limpido e netto: la destra dei ricchi e dei padroni, la sinistra dei poveri e degli operai. E’ così che si strizza l’occhio a quello che Giuliano Ferrara chiama “il risentimento convenzionale contro la società e le leggi dell’economia”. La sinistra non può sperare di produrre nuove idee supponendo che là fuori, da qualche parte, ci sia un’idea di sinistra “dei deboli” da riacchiappare per depurare della tossina liberista la sinistra “dei forti”.
E non basta neppure, come fa Polito, nascondersi dietro il nuovo liberalismo del lungo saggio con cui The Economist celebra i suoi 175 anni. La difesa orgogliosa (non potrebbe essere altrimenti) che il settimanale fa del liberalismo e delle sue grandi svolte – la battaglia contro il protezionismo sulla quale il giornale nasce, la scommessa di inizio XX secolo, il New Deal, il thatcherismo – e la richiesta urgente di una sua reinvenzione alle prese con le sfide dell’immigrazione e delle potenze autoritarie, non sposta la questione per il PD. Il nuovo contratto sociale di cui parla The Economist è quello che i governi riformisti hanno perseguito negli ultimi anni: la retorica dell’ascolto dei deboli non basta certo a spezzare l’ondata di paura e di chiusura sulla quale prosperano i nazional-populisti.
“Apertura contro chiusura” o “sinistra contro destra”?
Si finisce inevitabilmente qui. La sinistra non ha ancora risposto alla questione che Tony Blair – con grande lucidità – poneva più di 10 anni fa alla fine del suo mandato: “open v closed” is as important today in politics as “left v right”. Le nazioni danno il loro meglio quando sono preparate all’apertura, quando scansano ogni protezionismo, quando rendono facile la vita agli investitori esteri, quando regolano la flessibilità del mercato del lavoro, quando sanno cogliere i benefici di una immigrazione controllata. Questa polarità tra apertura e chiusura attraversa i vecchi confini tra destra e sinistra. Ecco perché se si vuole, analogamente a quanto propone The Economist per il liberalismo, ripensare il PD – che poi oggi, proprio in ragione di questa polarità, significa la stessa cosa – non si può saltare ancora una volta questo nodo.
Chi cerca una alternativa al nazional-populismo non deve andare molto lontano per cominciare a elaborare risposte. Deve trovare il modo per sciogliere oggi, 2018, il nodo che Blair poneva nel 2007. E’ stata l’incapacità di farlo che ha condotto il PD alla sconfitta.
Funzionario del Comune di Terni. Già assessore alla Cultura a Terni, è stato collaboratore a contratto del Censis e della cattedra di scienza della politica, Facoltà di scienze politiche della LUISS.