di Enrico Borghi
Quando in politica si genera una crisi, un punto di rottura, serve andare un po’ più a fondo dell’epidermide per capirne i motivi. Non servono le logiche del tifo, dello slogan e della battuta che ispirano i dibattiti contemporanei, soprattutto sui social, e che lasciano tutto il tempo che trovano. E non sono per nulla sufficienti le giustificazioni che si rifanno alle caratteristiche personali di questo o quel leader politico.
È vero che oggi, nell’evaporazione della politica, le dinamiche di tipo caratteriale e psicologico hanno un peso maggiore del passato. Ma è altrettanto vero che la guida di un Paese del G7 non può – né tantomeno deve – essere riducibile a considerazioni legate al carattere o alla postura di un leader. C’è qualcosa di più, che va scandagliata e capita, e che va sviscerata se vogliamo trovare le ragioni della soluzione alla crisi anziché quelle della sua radicalizzazione. Tra questi “perché” ci sono vari aspetti.
Vorrei provare ad enuclearne alcuni.
1) La differenza strutturale tra la prima fase e la seconda fase della pandemia.
Il confinamento sanitario partito a marzo era fondato sulla speranza di una durata breve dello “stato di eccezione”, e per questo si basava sulla fiducia delle istituzioni e della scienza. La paura era stemperata dalla autoconsolatoria rassicurazione che saremmo riusciti a risolvere la questione (“andrà tutto bene”). La seconda ondata ha cambiato le coordinate. La speranza ha lasciato il posto alla paura, al rancore, alla rabbia; l’attesa si è mutata in disorientamento generale, e la semplificazione emergenziale dei problemi – unita ad un mix tra precauzione e rincorsa corporativa che ha generato il meccanismo “apri-chiudi-chiudi-apri” che ha sfibrato la società – è stata letta come sottovalutazione dei problemi.
La seconda ondata pandemica ha generato una frattura economica e sociale nel paese, non curabile con la dinamica anestetizzante dei ristori e dei bonus. Ecco, sta nel non aver saputo cogliere questo salto di fase uno dei perché di questa crisi.
Bisogna dunque ripartire da qui: dalla constatazione che la pandemia ci restituisce un Paese nel quale il ripensamento strutturale è indispensabile. Senza ripensamento (senza riformismo, dunque) non ci potrà essere nessuna ricostruzione. E la politica del rinvio, in questa logica, è solo suicida.
2) La fine dello “Stellone”
Spesso, riguardando la Storia d’Italia, ci si è chiesti come sia stato possibile che un Paese così complesso e difficile abbia superato momenti drammatici. La distruzione della guerra, un paese lacerato, e poi il terrorismo, le stragi, il rischio del baratro finanziario del primo decennio… A tutti questi shock l’Italia rispondeva con meccanismi endogeni di progressivo aggiustamento sociale, adattandosi di fronte alla complessità e alla sofisticazione dei processi di sviluppo. Un meccanismo di intreccio particolare tra i tessuti costituenti nazionali, che faceva parlare dello “Stellone” italiano che alla fine risolveva tutto. Un pratico processo di aggiustamento del sistema produttivo e sociale, che faceva assorbire gli urti di una trasformazione.
Sono dell’opinione che la pandemia abbia rotto questo meccanismo interno. Non si può più fare affidamento sul fatto che le famiglie, gli enti locali, le imprese, il terzo settore, l’associazionismo, la solidarietà minuta da soli possano fare da grande materasso in grado di attutire l’impatto della caduta. La grande trasformazione demografica in atto, la crisi delle strutture del governo locale, una erosione della cultura solidaristica diffusa sono fenomeni coi quali fare i conti.
È quindi il momento di ripensare il Paese, cogliendo l’occasione per immaginarne e costruirne uno nuovo, anziché fare impacchi e placebo. Anche in questo caso, non si è colto politicamente la necessità del salto di fase, e ci si è rinchiusi paternalisticamente dentro la cultura del respiro breve, del sussidio e dell’illusione della spesa pubblica come unica possibilità di soluzione dei problemi. Oggi, invece, non si può può rinviare un riordino razionale dei problemi, con una modalità più attenta e tenace del perseguimento degli interessi collettivi e non della rincorsa corporativa. La strettoia drammatica creata dal virus va attraversata, non elusa. È questo il campo di governo del riformismo.
3) L’usura viene a galla
Ci avevamo provato nella scorsa legislatura, ad ammodernare la struttura istituzionale del Paese. Coi risultati che conosciamo. Ma per una nemesi della Storia, l’usura delle istituzioni (e della classe dirigente) è riemersa drammaticamente di fronte al banco di prova del virus. Il tentativo di governare l’emergenza rifuggendo dall’applicazione dell’articolo 120 della Costituzione, che attribuisce allo Stato l’esercizio di poteri eccezionali in caso di eccezionalità delle situazioni, semplicemente per non aver il fisico per reggere la sfida, ricorrendo al surrogato della governance via webinar non ha funzionato. Le polemiche da cortile ormai quotidiane tra Stato e Regioni sono ormai stucchevoli, e denotano una febbre alta.
Non si sfugge da un tema irrisolto da un Trentennio almeno: bisogna dare un taglio netto al nodo ingarbugliato dei fili del potere, delle politiche, delle rappresentanze ormai pletoriche per sostituirlo con un progetto collettivo che spazzi via la soggettività egoistica e corporativa che per decenni ha costituito la via di fuga (illusoria) dei nostri problemi. Il lento scivolamento verso il basso della struttura italiana, in tutte le sue componenti (che per un periodo si è pensato di far finta di curare dando la colpa solo alla “casta” mentre era -ed è- un problema profondo di classe dirigente) ci obbliga a immaginare un’altra storia, quella di un Paese più moderno e per questo più giusto. E quindi riformato nel profondo.
Deputato del Partito Democratico dal 2013. Già sindaco di Vogogna per ben quattro mandati, è attualmente membro dell’Assemblea nazionale del Pd e componente della Commissione Difesa della Camera dei Deputati. Presidente dell’Uncem dal 2000 al 2018. Aderisce a Base Riformista.