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Siria, sangue e metafora

Danilo Di Matteo martedì 10 Dicembre 2024
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di Danilo Di Matteo

In Siria si spara e si muore, troppo sangue viene versato. Poi, però, la vicenda siriana è una grande metafora. Innanzitutto della condizione umana, caratterizzata dall’imprevisto, dall’inatteso, dall’inopinato. Tutti a discettare di Palestina (con la tragica appendice libanese) e di Ucraina, ed ecco che fa irruzione nella cronaca di guerra la Siria (tra l’altro, il gruppo libanese filosiriano, ora vicino a Hezbollah, attivo da decenni, dai tempi di Assad padre, si chiama, quasi paradossalmente, Amal, “Speranza”). Metafora, inoltre, degli intrecci e del groviglio fra geopolitica, gruppi religiosi, etnie, ideologie, interessi inconfessabili. Il gigante turco, membro attivo della Nato, sostiene i cosiddetti ribelli islamisti, che scaturiscono dal più sanguinoso terrorismo sunnita, legato addirittura al terrore che prova a farsi Stato. L’islam sciita, in evidente difficoltà militare, oggi, paladino del vecchio regime. Mosca accoglie Assad, senza esporsi troppo, barattando magari Damasco con Kiev. E ancora: faide, antiche e recenti contese familiari e di clan, prigionieri politici, metodi dispotici e sanguinari. Un frate francescano, giorni addietro, che definiva, da Aleppo, i ribelli come “terroristi civilizzati”, pronto a collaborare. Israele che torna sulle alture del Golan, al fine di capitalizzare le divisioni altrui.  E il popolo curdo che non trova pace, perseguitato e osteggiato da (quasi) tutti, abbandonato, bastonato e tradito politicamente e militarmente.

Ecco, proprio dal grembo del popolo curdo nasce lo slogan Donna, Vita, Libertà. Tel Aviv faro di democrazia? A me pare che sia quella triade – assai più che uno slogan, in realtà – a condensare le istanze democratiche. In un contesto così tribal-patriarcale e “fallogocentrico”, è proprio dalla minoranza curda che proviene l’unico grido sensato, vero e proprio sale e lievito per un futuro di pace e di democrazia, non solo a quelle latitudini. Discorsi insensati di potere e di dominio, contese per il petrolio e per il nulla attendono di essere sostituiti dalla ragionevolezza del dialogo e del patto fra diversi. Al di là della stessa diatriba “due popoli, due Stati” versus “due popoli, uno Stato”. Occorre ridestare piuttosto lo spirito federale, il foedus con l’altro e con l’altra, con chi è differente: un patto fra gruppi, generazioni, fedi, generi, disarmando le milizie. È la nostra utopia, che attende di concretizzarsi.

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