di Giorgio Armillei
Ultimi confronti prima del voto sulla riforma costituzionale che riduce il numero dei parlamentari. Ancora policy e politics si intrecciano. Prevale ora uno ora l’altro aspetto ma in questi ultimi giorni l’attenzione sembra essersi spostata sui contenuti della riforma. Rivediamo alcuni degli argomenti dei sostenitori del no.
Una prima questione riguarda gli effetti disrappresentativi della riforma. Si renderebbero meno articolati e meno accountable i rapporti tra eletti ed elettori. Allo stesso tempo la soglia di sbarramento implicita, effetto della riduzione del numero dei seggi in palio, diventerebbe eccessivamente onerosa per i piccoli partiti espressione di minoranze territoriali o d’opinione.
Una seconda riguarda l’efficienza decisionale del Parlamento a ranghi ridotti che sarebbe messa a dura prova dal troppo esiguo numero di componenti delle Camere, in specie del Senato, inadeguato a sopportare adeguatamente i carichi del lavoro d’aula e di commissione, con il conseguente indebolimento della funzione legislativa e di quella di indirizzo e controllo.
Una terza mette in dubbio la previsione che i sostenitori del sì fanno intorno al miglioramento della qualità della classe politica parlamentare. Al contrario, la riduzione del numero conduce ad una selezione avversa che lascia fuori i migliori a vantaggio dei pochi esperti nelle pratiche consociative lobbistiche e di ceto politico.
Intorno a questi punti si possono tuttavia individuare strumenti di attuazione della riforma, perché di provvedimenti di diversa taglia e livello ci sarà bisogno con certezza per attuare questa riforma, in grado di neutralizzare i rischi paventati o comunque escogitare soluzioni che mettano il futuro Parlamento in condizione di farlo. Vediamone alcuni.
L’effetto soglia di sbarramento dipenderà dal ridisegno dei collegi elettorali e dalla riforma della legge elettorale, al netto della necessaria rimozione, per altro già avviata, del vincolo costituzionale che lega l’elezione dei senatori alla “base regionale”. È abbastanza acquisito dalla letteratura che un numero troppo alto di parlamentari aumenta e non diminuisce la formazione e l’esercizio di poteri di veto, e dunque la sterilità del processo decisionale, diminuendo la possibilità di sostenere e approvare riforme significative. Se il numero non è garanzia di qualità, sia che lo sia voglia mantenere così com’è sia che lo si voglia ridurre, è anche vero che sulla qualità del processo di scelta dei parlamentari occorre lavorare in sede di nuova legge elettorale e più in generale di perfezionamento del selectorate relativo alla scelta dei candidati. La riduzione dei Parlamentari non può certo peggiorare il quadro attualmente esistente. Anche sui carichi di lavoro dei parlamentari non è attendibile ragionare a “quadro normativo vigente”. Saranno necessarie, e in qualche caso inevitabili, riforme appropriate dei regolamenti parlamentari per razionalizzare il lavoro delle Camere, ridurne i tempi e accrescerne l’efficacia. Anche se ovviamente c’è da intendersi su quest’ultimo passaggio: quale ruolo si intende attribuire al Parlamento nell’evoluzione della forma di governo italiana? Si vuole continuarne a tollerarne le derive assemblearistiche? In questo caso l’efficacia si misura sulla capacità di intralcio all’azione di governo. O si vuole procedere alla sua razionalizzazione, nel senso della democrazia governante? In questo caso l’efficacia si misura sulla trasparenza e la linearità nei rapporti tra governo (e sua maggioranza parlamentare) e opposizione, dotando il primo dei poteri di gestione dell’agenda e di tempi certi per l’approvazione dei provvedimenti e la seconda di vasti e penetranti poteri di controllo.
Diciamo allora un pò grossolanamente che la policy alla fine non è un problema: alla peggio lascia le cose come stanno, forse le migliora un po’ anche ad avviso dei più critici della riforma, quelli per i quali si tratta in fondo di un piccolo quasi marginale cambiamento se messo a confronto con le più grandi necessità di riforme di sistema. Non sarà un caso se dal dibattito in Assemblea costituente in poi tutti i riformisti abbiano cercato la riduzione del numero dei parlamentari. Potremmo dire una piccola riforma che tutti hanno sempre voluto.
È la politics dunque a fare problema. E qui, al netto di promesse di future riforme di sistema, sempre difficili da valutare; al netto delle riforme che non potranno non essere fatte pena una mezza paralisi del sistema; al netto delle intenzioni originariamente populistiche di una parte degli artefici della riforma (per altro ora sparpagliati tra maggioranza e opposizione); non riesco a vedere come per i riformisti – cioè per coloro che nel campo liberale di maggioranza e di opposizione reputano essenziale una razionalizzazione della nostra forma di governo – lo scenario post vittoria del no possa ritenersi migliore di quello post vittoria del sì.
Il consenso e la forza per future riforme di sistema sono tutti da costruire. Il no faciliterebbe questa difficilissima impresa? Guardando alle élite che si vanno schierando, il riformismo liberale nella coalizione del no avrebbe la meglio sulle spinte sovraniste e populiste che tentano di giocare in questa chiave il loro no? L’ancoraggio alla maggioranza Ursula (unica via al momento per garantire stabilità nell’allineamento tra quadro costituzionale nazionale e quadro costituzionale dell’Unione, con tutto quello che questa stabilità produce e potrà produrre) ne uscirebbe rafforzato?
La mia risposta è negativa. Sgomberato dunque il campo resta solo il (piccolo o grande) vantaggio di policy. E dunque meglio assicurarselo votando sì.
Funzionario del Comune di Terni. Già assessore alla Cultura a Terni, è stato collaboratore a contratto del Censis e della cattedra di scienza della politica, Facoltà di scienze politiche della LUISS.