LibertàEguale

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di Giovanni Cominelli

 

Contribuiscono due cause, almeno, all’attuale conflitto tra Stato-Regioni-Province- Comuni, che il Covid-19 ha scoperchiato.

Una è politico-contingente. I cittadini non hanno nessuna voglia di ritornare al lockdown di primavera. Dunque, a cittadini malmostosi, spaventati, infantilizzati chi vorrà dire la verità e chi vorrà stringere i cordoni della libertà di muoversi?

Ora che il governo è uscito, con grave ritardo, dall’indecisionismo cronico, alcuni Presidenti di Regione e qualche sindaco chiedono “i numeri scientifici” che giustifichino il lockdown.
Non basta il numero dei morti?!

E’ il classico penoso gioco del cerino, la cui posta in gioco non è salvare più vite umane possibili, ma accumulare voti in vista delle prossime elezioni. Gioco evitabile, forse, se il Governo e i partiti di maggioranza avessero fin dall’inizio fatto alle opposizioni un’offerta che non potessero rifiutare. Tuttavia, più che la scarsa moralità politica della classe dirigente – se uno non ce l’ha, non se la puo’ dare! – conta, a spiegare la disconnessione, l’assetto istituzionale del rapporto Stato-Regioni.

Snodo fondamentale della costruzione dei poteri delle Regioni fu la Legge n. 833 del 23 dicembre 1978 istituì il Servizio sanitario nazionale, con forti deleghe alle Regioni, che finirono per dedicare alla Sanità dal 75% al 90% dei propri bilanci. Nel corso degli anni si sono così costruiti venti sistemi sanitari. Fin dagli anni ‘80 le Regioni erano diventate degli enormi centri di spesa e di costosa moltiplicazione di un ceto politico, che competeva per il controllo/distribuzione dei soldi pubblici.

Soldi nazionali, perché le Regioni non dispongono un introito fiscale proprio, se non minimo.

Dunque: troppe Regioni, troppo inefficienti, troppo spendaccione. Governatori regionali? Ma va là! Governo del territorio? Ai minimi.

Fu così che la piccola scintilla leghista di Bossi diventò negli anni ’90 un incendio. Il 12 dicembre 1993 Gianfranco Miglio presentò ad Assago, al secondo congresso della Lega Lombarda, il proprio Decalogo – che lui preferiva chiamare “Breviario” – il cui articolo 1 suonava così: “L’Unione Italiana è la libera associazione della Repubblica Federale del Nord, della Repubblica Federale dell’Etruria e della Repubblica Federale del Sud. All’Unione aderiscono le attuali Regioni autonome di Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e del Friuli Venezia Giulia”. Una sorta di Stati Uniti d’Italia (SUI?).

Gli articoli successivi organizzavano l’Unione Italiana sul modello svizzero, federalismo fiscale compreso.

Bossi sperperò nel giro di pochi anni l’eredità intellettuale di Miglio – paragonata al rumore poco intellettuale di un meteorismo – passando rapidamente dal federalismo al secessionismo padano. L’alleanza di governo con Berlusconi la seppellirà definitivamente, mentre, a sua volta, il Cavaliere svuotava in pochi anni il proprio liberalismo.

A sinistra l’audacia riformistica di Occhetto era molto minore: si trattava di spingere il regionalismo “ai limiti del federalismo”. Dopo il fallimento della Bicamerale, affossata da Berlusconi con la complicità dichiarate e occulte di molta sinistra, D’Alema pensò furbescamente di staccare la Lega dall’alleanza con Berlusconi, proponendo una rimodulazione delle competenze tra Stato e Regioni, a favore delle Regioni.

La riforma del Titolo V, approvata a spron battuto il 5 giugno 2001 e confermata per referendum il 7 ottobre 2001, configurava un nuovo assetto del sistema delle autonomie territoriali, collocando gli enti territoriali al fianco dello Stato come “elementi costitutivi della Repubblica”, perciò comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato conquistavano pari dignità. L’acquisizione culturale era difficilmente sottovalutabile: lo Stato era retrocesso a pezzo della Repubblica, finiva la coincidenza giacobina tra Stato e Repubblica del modello savoiardo-piemontese.

Ma l’art. 117 del Nuovo Titolo V, dopo aver distinto le competenze proprie dello Stato da quelle delle Regioni, allargò un’area abnorme di “legislazione concorrente”. Si tratta di circa 21 voci, tra cui istruzione, tutela della salute, protezione civile, governo del territorio porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia ecc…

Ce n’era quanto bastava per aprire più di un migliaio di contenziosi presso la Corte costituzionale e per paralizzare decisioni di importanza strategica, quali quelle relative alle reti di trasporto o alla “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” e per generare rimpalli di responsabilità nel campo della tutela della salute, come sta accadendo in questi giorni.

Renzi provò a proporre, con il referendum del 4 dicembre 2016, di ricentrare sullo Stato la politica delle grandi infrastrutture, di introdurre i LEP – cioè  livelli essenziali di prestazione per tutte le Regioni – di diminuire i campi della legislazione concorrente e, infine, di stabilire una clausola di supremazia dello Stato. Gli italiani bocciarono la proposta.

Ora, pare che il PD, dopo aver approvato l’improvvida riduzione dei parlamentari e aver teorizzato il riformismo occasionale e puntiforme, sia uscito dal letargo e voglia riprendere la battaglia delle riforme istituzionali.
Pare!

Il Covid ha fatto riemergere tutta la fragilità e l’ingovernabilità del sistema istituzionale. Che non è più problema accademico dei costituzionalisti e pretesto di posizionamento politico dei partiti. Questa volta i cittadini ne pagano le conseguenze sulla propria pelle, nel senso che ne va, letteralmente, della loro vita. E forse questo potrebbe indurli a una maggiore saggezza referendaria nel presente e nel futuro. Forse…

 

(Pubblicato da santalessandro.org, sabato 7 novembre 2020)

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