di Alberto De Bernardi
“Mussolini? Ebbe un grande consenso in Italia e all’estero per le sue opere sociali“. Questa è la frase incriminata pronunciata da Bruno Vespa nella trasmissione “Agorà” dove era stato invitato per lanciare il suo ultimo libro dedicato al fascismo, – Perché l’Italia amò Mussolini (e come è sopravvissuta alla dittatura del virus) – il secondo di una trilogia -. Come era prevedibile ha suscitato l’indignazione degli antifascisti in servizio permanente attivo pronti a rintuzzare lo strisciante “ritorno del fascismo” ovunque esso si manifesti e in particolare nell’opera di divulgazione di giornalisti “di destra”.
Il caso è stato montato da Repubblica che per bocca della giornalista Laura Mari aveva accusato Vespa di “tessere le lodi” di Mussolini. Da qui un profluvio di attacchi, insulti, critiche altezzose da parte di chi ancora nel 2020 si rifiuta di fare i conti con il fascismo per quello che fu e non quello che pensa sia stato alla luce della sua visione del mondo. Ovviamente Vespa ci mette del suo perché inanella nella frase successiva pronunciata in TV un errore e due inaccettabili imprecisioni – il fascismo non ha mai introdotto le 40 ore settimanali, ma le otto ore giornaliere; ha istituto i contratti nazionali di lavoro come parte integrante dell’architettura corporativa, che quindi hanno ben poco a che fare con quelli attuali, e non ha creato INPS se con questa affermazione si intende che ha inventato le pensioni, quanto piuttosto ha trasferito a un ente pubblico nuovo, l’Istituto nazionale fascista della previdenza sociale, il sistema pensionistico e dell’assistenza malattie ereditato dall’ epoca prefascista – e ripiomba cosi nella attuale “querelle” tra i sostenitori del “il fascismo ha fatto anche cose buone” e i quelli del “il fascismo non ha fatto niente di buono” che da quando è uscito il libro di Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone, ha fatto regredire ogni seria discussione sul fascismo a un conflitto “da tastiera” tra tifoserie contrapposte che elencano successi e disastri del regime.
Infatti il problema storico non se il fascismo abbia fatto cose buone o meno, che riguarda le volontà contrapposte di riabilitarlo e di demonizzarlo, quanto piuttosto indagare attraverso quali policies e quali politics il fascismo sia riuscito a penetrare nella società italiana, raccogliendo un notevole consenso tra la popolazione. Riproporre a distanza di cinquant’anni il dibattito tra “revisionisti” – De Felice e la sua scuola – e “antirevisionisti” . gli storici marxisti e azionisti – che trapela in questo scontro sulla frase di Vespa significa alimentare una regressione culturale che crea una frattura sempre più profonda tra ricerca storica e uso pubblico della storia: nella prima il fascismo è un ambito di studio che negli ultimi trent’anni ha cambiato profondamente approcci e risultati; nel secondo è un feticcio ideologico primo di senso ma utile a riprodurre all’infinto il mito del “fascismo eterno”.
Affermare infatti che il fascismo ha avuto consenso, come fa Vespa, non solo non è un novità, ma dovrebbe essere un fatto acclarato; non è “negazionismo” ma significa invece cercare di capire cosa sia stato effettivamente nella fase storica nella quale è esistito. E un giudizio simile a quello che si potrebbe sostenere a proposito di Hitler, Stalin, Salazar, Franco e poi di Mao o Castro. I regimi totalitari infatti sono regimi che devono fare i conti con la società di massa e i processi di democratizzazione dello spazio pubblico ereditati dallo stato liberale, e sono costretti a integrare il mondo del lavoro e i ceti popolari nello stato etico e organico che volevano realizzare. E la crisi degli anni Trenta in Europa ha accentuato il successo del progetto autarchico -corporativo di cui erano portatori i fascismi, ma anche il “mito dell’Urss“, perché ritenuti in grado di risolvere contemporaneamente la crisi del capitalismo e della democrazia. Ora Vespa non è uno storico, ma qualche libro lo legge, come emerge dalla risposta ai suoi critici, e sa che dal ‘29 al ’37 il fascismo ha goduto di un consenso enorme del paese, mentre l’antifascismo si riduceva a sparute minoranze prove di voce, grazie soprattutto sulla creazione di un welfare autoritario, certo povero, certo diseguale, certo costruito per ritagliare il consenso nei pezzi di società che stavano a cuore al regime, ma in grado di rafforzare i legami con le classi medie, le aristocrazie operaie, la piccola proprietà rurale: un welfare costruito attraverso procedimenti e istituti non dissimili da quelli che venivano realizzati in altri paesi occidentali.
Per questo sconfiggere il fascismo è stato difficilissimo e ha alimentato nel nostro paese la più solida rete di forze antidemocratiche eversive che hanno avuto un ruolo cruciale nella storia italiana fin quasi alla fine del secolo scorso: Msi, P2, terrorismo nero, trame eversive di segmenti dell’establishment militare e giudiziario infedeli alla Repubblica.
Il dramma è che tutto questo lo sanno anche quegli storici che hanno aggiunto le loro voci al melodramma dell’antifascismo militante sprigionatosi in rete contro Vespa. Infatti se non lo sapessero dovrebbero cambiare mestiere.
Professore di Storia Contemporanea all’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Presidente della Fondazione PER – Progresso Europa Riforme. Componente del Comitato scientifico di Libertà Eguale. Tra i suoi libri più recenti: “Fascismo e antifascismo. Storia, memoria e culture politiche”, Donzelli Editore 2018, e “Il paese dei maccheroni. Storia sociale della pasta”, Donzelli Editore 2019