Nel dibattito di questi giorni sul Quirinale ritorna di attualità l’intervista di Francesco Bechis a Claudio Petruccioli, già senatore, presidente Rai e direttore dell’Unità, apparsa su www.formiche.net il 20/07/2021. La ripubblichiamo volentieri.
Classe 1941, come Sergio Mattarella, “forse per questo mi sento vicino a lui, alla sua missione”. Claudio Petruccioli è un fiume in piena. Cinque legislature in Parlamento, una vita nel Pci, direttore de L’Unità e poi presidente della Rai, a ottant’anni ancora non si è stufato. Della politica, si intende, con Draghi a Palazzo Chigi “siamo tornati alla politica”, la fiamma si è riaccesa, con tanti saluti a chi bolla l’ex presidente della Bce come primo ministro “tecnico”. In questa lunga intervista a Formiche.net Petruccioli dice, in sostanza, l’esatto contrario. Il premier e il Capo dello Stato sono gli unici due “nocchieri” che possono tirare fuori il Paese dal guado. E chi lavora per sostituirli “non lavora per il Paese”.
Petruccioli, non ne ha ancora abbastanza della politica italiana?
Mi appassiono alle sorti della Repubblica, e lo farò finché vivo.
Anche ai tempi del governissimo Draghi e dei ministri tecnici?
Certo, anche più di prima. Chi dice che il governo Draghi non è politico non capisce nulla. Con la decisione di Mattarella di portare Draghi a Palazzo Chigi siamo tornati alla politica. È tornata una attenzione alla Res publica, al buon governo, che non si sentiva da tempo.
Sprizza entusiasmo.
Sono realista. I partiti sono deboli, labili, le stesse leadership sempre più fragili. Il nostro Paese vive da anni una crisi di identità, con un sistema politico che non produce governo.
Quindi?
Quindi, da cittadino, scorgo due soli punti di forza: Draghi e Mattarella. Due storie e formazioni diverse, il primo legato alle alte sfere dell’amministrazione, il secondo alla Prima Repubblica, entrambi fuoriclasse della politica. Anche solo pensare di metterli da parte apre interrogativi inquietanti sul futuro del nostro Paese. E ci aggiungo una nota personale.
Prego.
Fra pochi giorni, come ho fatto io qualche mese fa, il Presidente della Repubblica compirà 80 anni. Siamo entrati insieme in Parlamento, nel 1983. Ho gioito quando è andato al Quirinale e gioirei se ci restasse.
Tifa per il bis?
Lo so, lui ha escluso tante volte una sua riconferma. Capisco la sua renitenza. Ha uno scrupolo da costituzionalista: un’altra rielezione, dopo quella di Napolitano nel 2013, potrebbe costituire un precedente giuridico.
Però?
Come dicevano gli antichi: “Salus rei publicae suprema lex”. L’Italia è una nave in un mare in tempesta, dalla ripresa tutta in salita a un’Europa in profonda crisi. Ha bisogno di due nocchieri forti, Draghi e Mattarella dovrebbero restare al proprio posto.
Al Colle dunque una rielezione tecnica, magari di due anni?
No, un vero secondo mandato. Poi, se nel corso del settennato Mattarella riterrà di avviare le procedure per la sua sostituzione, potrà e dovrà farlo. Si apre un periodo costituente per l’Italia. Non parlo di comitati, commissioni e task force per le riforme, di quelle ne abbiamo già tante. Parlo di una necessità imposta dai fatti. Il Parlamento cambierà volto, con un formato ridotto. Potrebbe cambiare anche il mandato del Capo dello Stato.
Come?
Divieto di riconferma e abolizione del semestre bianco. Dopotutto anche Roosevelt nel 1941 fu eletto presidente una terza volta. Solo in un secondo momento hanno approvato il XXII emendamento.
I partiti hanno idee diverse…
I partiti e i loro leader sono tutti deboli, nessuno escluso. Mio padre era un tecnico delle ferrovie. Ogni tanto in officina entravano le locomotive per la “grande”, la grande riparazione, una revisione e ristrutturazione che si imponeva dopo impegni usuranti. Ecco, ai partiti farebbe bene un lungo periodo di convalescenza.
A chi più di altri?
Ne hanno bisogno per ragioni diverse sia il centrodestra sia il centrosinistra, Cinque Stelle inclusi. Qualcuno sembra non capirlo. Ho letto che, secondo le ricostruzioni di stampa, Conte accarezza l’idea del voto anticipato, subito dopo l’elezione del Quirinale. Sono allibito. Conte e Letta vanno dicendo da mesi di voler costruire un’alleanza strategica.
E questo cosa c’entra?
C’entra eccome, è una questione di tempo. Se arrivano al voto senza aver messo a punto il progetto, la sconfitta alle urne è certa. Come puoi pensare di riuscire a farlo nel giro di cinque, sei mesi? Ma dove vivono?
Torniamo a Draghi e ai partiti. Il premier sarà anche solido, ma sul programma è un continuo stop and go, l’ultimo sull’obbligo vaccinale. A lei piace il modello Macron?
A me pare surreale il dibattito stesso. E soprattutto chi chiama in causa il liberalismo. La mia libertà finisce dove comincia quella degli altri. Finché si sta all’aperto, nessun problema. Quando si entra in un locale, bisogna avere qualche garanzia che non ci siano persone infette. Altrimenti torneremo presto a contemplare un nuovo lockdown.
Insomma, non è un fan della diatriba aperturisti-chiusuristi.
Io sono fan di una comunicazione più sobria, rispettosa, senza enfasi inutili o allarmismi strumentali. Draghi, da questo punto di vista, è un esempio.
Non le manca il metodo Casalino…
Confesso di non averlo mai sperimentato. Di certo non mi manca una comunicazione che cerca solo di impressionare. E una tv pubblica che cerca di scuotere l’emotività, le paure, invece che la razionalità.
Chiudiamo ancora sui partiti. Nel suo ultimo libro, “Rendiconto” (La nave di Teseo), traccia un bilancio della sinistra italiana dal Pci al Pd. È una parabola discendente?
Mi astengo da un giudizio sommario. Quando si arriva alla mia età si incappa facilmente nella “Sindrome di Bartali”: tutto sbagliato, tutto da rifare. Un difetto di questa sinistra però, non solo in Italia, posso dirlo. È troppo bloccata a fare i conti con il passato, guarda poco al presente.
Detto da lei, che è stato iscritto una vita al Pci, fa un certo effetto.
Io non rinnego il mio passato, sono stato per trent’anni comunista, finché c’è stato il Pci. Alla fine degli anni ’80, quando ci fu la crisi del mondo sovietico, sono entrato nella segreteria del partito. E sono stato tra i primi a dire che avremmo dovuto cercare risposte nel futuro.
Che futuro si immagina per la sinistra italiana?
Sinceramente è difficile non vedere nubi all’orizzonte. Già constatare che il Pd, Renzi, Calenda e le altre forze della famiglia progressista sono divise aspramente e faticano a comunicare, perfino a incontrarsi, non infonde grande ottimismo.
Sul Ddl Zan meglio Renzi il pragmatico o Letta il risoluto?
La verità? Ogni giorno che passa ho sempre più la sensazione che questa discussione sia un pretesto per polemizzare e non un modo per raggiungere un giusto obiettivo comune. Peccato.
E sulla Giustizia?
Ecco, questo è un altro paio di maniche. Mi auguro che sulla riforma non si ripetano le tristi scene che abbiamo visto con il ddl Zan. Qui il governo ha la possibilità e direi anche il dovere di mantenere la barra dritta di fronte a preoccupazioni che, sinceramente, mi sembrano poco fondate.