di Claudia Mancina
La terza via è apparsa almeno due volte (forse di più, a fare una ricerca accurata) nella sinistra europea. La prima è quella di Berlinguer. Nella sua accanita, incessante ricerca di vie nuove per Il Pci, che tuttavia non ne negassero l’identità storica, il segretario elaborò vari tentativi di terzietà, soprattutto in politica estera. Già nel 1973 parlò in Direzione di una “Europa né antisovietica né antiamericana”, in uno sforzo di spingere l’europeismo del Pci a distanziarsi dall’ortodossia sovietica senza tuttavia precipitare nell’atlantismo. Quanto l’europeismo non possa differenziarsi dall’atlantismo, ce lo stanno ricordando, nel caso qualcuno si facesse ancora illusioni, le attuali guerre. Negli anni Settanta, però, i tentativi di distensione di un Brandt o di un Palme sembravano poter aprire la strada a una via europea che fosse, appunto, “terza”. Nella stessa direzione andava quello che fu il maggiore, anche se sfortunato, tentativo berlingueriano di impostare una nuova politica estera: l’eurocomunismo. Presto affossato dal pesante intervento sovietico sui partiti spagnolo e francese, che ne erano gli interlocutori, l’eurocomunismo si proponeva di disegnare, nell’Europa occidentale, una via altra e intermedia tra comunismo sovietico e socialdemocrazia. A distanza si può dire che fu questa la missione di Berlinguer: uscire dall’alveo comunista (essendosi esaurita la “spinta propulsiva” della rivoluzione d’Ottobre) senza tuttavia fare il passaggio alla socialdemocrazia. Una missione impossibile, che segnò il fallimento finale del più originale dei partiti comunisti, il partito che aveva scelto la democrazia occidentale, partecipato alla scrittura della Costituzione, svolto un ruolo essenziale nella storia italiana del dopoguerra, senza però mai recidere le sue radici.
Un’altra terza via si affaccia alla storia europea negli anni Novanta, questa volta nel Regno Unito. Nel 1997 un giovane Tony Blair vince a valanga le elezioni politiche e diventa primo ministro. Nei tre anni precedenti, da segretario del partito laburista, ha lavorato a cambiare la cultura politica e la struttura del partito. Particolarmente significativa, sul piano simbolico, la battaglia per l’abolizione della “clause 4”, l’articolo dello statuto che richiedeva la proprietà collettiva della produzione. La modifica di questo articolo costituisce l’atto di nascita del New Labour, come Blair lo chiamò. E nasce qui anche la terza via, che è mediana tra il neoliberismo della Thatcher e il socialismo tradizionale del vecchio Labour. La Thatcher, detestata dalla sinistra di tutta Europa, aveva però avuto il merito di restaurare l’economia britannica, e anche almeno un po’ dell’orgoglio di quella nazione che non aveva superato il trauma della perdita dell’impero. La terza via di Blair voleva cavalcarne i successi, ma addomesticando le punte più dure delle sue politiche sociali. Abbandonava quindi gli eccessi statalisti propri della tradizione laburista (che dopo di lui saranno restaurati, con esiti disastrosi, da Jimmy Corbyn), per adottare una nuova idea di sinistra, che conserva l’ideale della giustizia unendolo a quello delle pari opportunità e dell’inclusione sociale. La stagione di Blair – al quale si è per un breve periodo affiancato Bill Clinton – è durata dieci anni, e sarebbe durata di più se non fosse stato per il coinvolgimento nella guerra in Iraq. Dopo, il mondo è ulteriormente cambiato, ed è cambiato, con la Brexit, il Regno Unito.
Non so quanti ricorderanno che la terza via ha fatto anche una rapida e inaspettata apparizione in Italia, e nelle vesti più improbabili, quelle di Massimo D’Alema. Per un breve momento, il segretario del partito erede del Pci tentò di importare il rinnovamento blairiano, proponendo una sinistra meno classista e statalista e più “New Labour”. Fu stoppato con durezza dal segretario della CGIL Sergio Cofferati, su posizioni che si potrebbero definire corbyniane ante litteram. D’Alema arretrò rapidamente. Forse non poteva fare altrimenti, vittima della maledizione della sinistra italiana post-comunista: buttarsi talvolta più a destra, talvolta più a sinistra, ma sempre senza elaborare, senza preparare le svolte.
Lasciamo pure stare la terza via, in tutte le sue versioni un pezzo di storia ormai finita. Ma un centrosinistra capace di progetto e di visione, capace di analizzare le trasformazioni della società e di proporre soluzioni ai problemi da queste provocate, e così capace di costruire una nuova base sociale: questo è il nostro Graal, che da allora cerchiamo e non riusciamo a trovare.
Pubblicato sul Riformista del 19 aprile 2024
Già docente di Etica all’Università “La Sapienza” di Roma, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Deputato dal 1992 al 1994 e dal 1996 al 2001 nel gruppo Pds/Ds, è membro della direzione nazionale del Partito democratico. Il suo ultimo libro è “Berlinguer in questione” (Laterza, 2014)