Mancano 8 giorni alla prima votazione del 24 gennaio per l’elezione del presidente della Repubblica. Torno qui, dopo settimane, per una sorta di “Diario” più o meno quotidiano.
Comincio con alcune osservazioni lampo cui aggiungo una prima versione in italiano di un articolo scritto per spiegare ciò che accade a un pubblico non italiano per un sito specializzato tedesco (il “Verfassungsblog”).
Note a caldo
a) è penosa la informale auto candidatura di Berlusconi; non ha alcuna possibilità ma ha dato vita a una sceneggiata di settimane dando l’impressione che sia una cosa possibile (con gli effetti in giro per il mondo che ci possiamo immaginare); gli altri di centro-destra (Salvini, Meloni) non hanno la possibilità politica di dirgli apertamente di no; gli altri partiti (pur dichiaratamente contrari) non hanno la possibilità né la convenienza di prenderlo a pernacchie perché dopotutto ci han fatto e ci fanno governi insieme: e perché insieme ci dovrebbero fare un presidente;
b) il tutto è una gran perdita di tempo; il vero è che ci sono due blocchi di 400-450 voti (centrodestra vs centrosinistra) più 150 nel mezzo (Coraggio Italia con Toti e Brugnaro, Italia Viva, Azione/Più europa, Tabacci ed altri; i 60-70 fuoriusciti del M5S); quindi l’unica cosa sensata è mettersi intorno a un tavolo e trovare una personalità di c.d. o c.s. accettabile da (quasi) tutti, partendo da coloro che sorreggono il governo Draghi: se questo è difficile o impossibile, la cosa giusta sarebbe rieleggere al primo voto con 800 voti o più Sergio Mattarella che è stato un eccellente presidente e riscuote generali apprezzamenti;
c) è proprio questa necessità di mettersi d’accordo – che è l’unica ricaduta ragionevole, che rende impossibile (non a noi cittadini che legittimamente manifestiamo tutto il nostro sconcerto per una candidatura che è irricevibile per qualsiasi paese civile, ma ai responsabili delle diverse forze politiche) liquidare la candidatura Berlusconi con le parole pesanti che meriterebbe (sul che eviterei facili ironie);
d) penso da mesi e mesi che la cosa saggia sarebbe rieleggere direttamente Mattarella; se proprio non vuole, Draghi è il second best, alla condizione che si concordi una fine legislatura ordinata col governo guidato da un’altra personalità qualificata ma non partigiana;le altre soluzioni sarebbero non buone perché anche se degne persone ovviamente ce ne sono, soluzioni piùo meno casuali a maggioranza provocherebbero instabilità seria il che sarebbe follia fra fine legislatura e PNRR da continuare a spingere;
e) andrebbe affrontata con un minimo di preveggente coraggio la questione Omicron/Covid e voto presidenziale: il parlamento in seduta comune integrato dai 58 delegati regionali è solo un seggio elettorale, ogni dibattito previo non è ammesso: perché allora non consentire forme di voto a distanza per coloro che sono infetti o anche solo in quarantena? Malati ce ne sono sempre stati: ma a parte che altra cosa è un’occasionale inevitabile malattia o infortunio altra un’epidemia mondiale (infatti gli impediti sono varie decine); soprattutto completamente diversa è la situazione degli elettori eventualmente impediti per semplice quarantena obbligatoria! Va bene che siamo conservatori nelle barbe, e le burocrazie parlamentari ancora di più: ma un minimo di coraggio innovatore mai?
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Un confronto tra Italia e Germania
A distanza di sei settimane si concludono i mandati del presidente italiano Sergio Mattarella (il 3 febbraio 2022) e del presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier (il 18 marzo).
Le costituzioni italiana e tedesca sono figlie del medesimo momento costituzionale (il secondo dopoguerra, la ferma volontà di ripudiare il recente passato totalitario), sono fra le più longeve in Europa ed entrambe prevedono regimi parlamentari. Non può sorprendere, perciò, che gli artt. 54-61 GG e gli artt. 83-91 Cost. it. delineino due figure di presidenti sostanzialmente gemelle. Vi sono certo differenze, ma se leggiamo la descrizione che il sito del Bundespräsident offre del ruolo del presidente nella Repubblica federale, vediamo che le stesse identiche parole si possono usare e sono state usate per il presidente della Repubblica italiana: «As head of state, the Federal President is for protocol purposes the most important man in Germany. He is the constitutional organ which represents the Federal Republic of Germany both at home and abroad. In his actions and public appearances, the Federal President makes the state itself – its existence, its legitimacy, its unity – visible. This at the same time involves an integrative role and the control function of upholding the law and the constitution. There is also a political reserve function for times of crisis in the parliamentary system of government» (vedi www.bundespraesident.de).
Eppure i due paesi non potrebbero vivere le due scadenze in modo più diverso. In Germania la rielezione è prevista e in ben quattro occasioni su sedici il presidente è stato rieletto (T. Heuss, H. Lübke, R. von Weizsäcker, H. Köhler). Il presidente Steinmeier già a fine maggio 2021 ha fatto sapere di essere disposto alla conferma, e tanto più dopo l’avvento della nuova coalizione la sua rielezione al primo turno è sicura (i tre partiti del semaforo ed anche l’opposizione Cdu-Csu hanno annunciato che lo voteranno).
In Italia, invece, è in corso da mesi una sorta di psicodramma collettivo nel corso del quale si scrive e si dice di tutto e di più in ordine ad ogni possibile aspetto dell’elezione del nuovo presidente: e anche la stampa internazionale sta dedicando molta attenzione alla vicenda. Questo si può capire: se gli italiani si agitano tanto qualche ragione ci deve pur essere; e del resto le sorti della terza economia dell’UE, per il rilancio della quale ingenti risorse comuni sono state destinate, coinvolgono, inevitabilmente, in misura maggiore o minore tutti i paesi dell’Unione, e chiunque abbia a cuore la stabilità del continente.
Per dirla in sintesi: quella “political reserve function for times of crisis” di cui parla il sito del presidente tedesco, in Italia è stata esercitata – in particolare negli ultimi trenta anni con tale frequenza dall’aver finito con l’esaltare il ruolo del presidente della Repubblica ben al di là della lettera della Costituzione e delle aspettative di coloro che la scrissero. E’ vero che i poteri giuridici del presidente italiano non sono trascurabili, come non lo sono quelli del presidente tedesco; e che il presidente italiano, in più, presiede il Consiglio supremo di difesa (dove è messo a parte dal Governo delle principali decisioni in materia, potendo aggiungere il suo consiglio) ed anche il Consiglio superiore della magistratura (che si occupa delle carriere dei magistrati e che presiede, almeno formalmente, senza che ciò – peraltro – abbia permesso ai presidenti di evitare una serie di distorsioni che tutti lamentano). Ma è anche vero che, sempre sul filo della comparazione, tutti gli atti del presidente italiano devono essere controfirmati a pena di validità (art. 89 Cost. it.), nessuno escluso, diversamente da quel che prevede la Grundgesetz per il presidente federale in relazione ai suoi poteri politici più significativi (nomina, revoca del cancelliere; scioglimento del Bundestag; richiesta al cancelliere di continuare ad esercitare le proprie funzioni fino a nomina del successore, art. 58 GG). Tra parentesi in base alla legge, in Germania, il capo dell’Ufficio del presidente federale (diciamo il segretario generale della presidenza) ha il diritto di partecipare alle riunioni del governo federale: facoltà che l’ordinamento italiano non prevede.
Il fatto si è che a fronte di ricostruzioni tradizionali della dottrina costituzionalistica che per decenni hanno definito la figura del presidente italiano come “ambigua” (“ibridazione di modelli diversi”, “figura dalle molte facce che svolge un ruolo variabile”, “enigmatico coacervo di poteri non omogenei”, “figura che oscilla fra natura di organo di garanzia e natura di organo di governo”, “camaleonte”), e di fronte alla fortunata immagine (richiamata da tutti) dell’organo dotato di “poteri a fisarmonica” (che si possono allargare o restringere a seconda della necessità), gli ultimi decenni hanno cambiato le carte in tavola: nel 1993 (ventinove anni fa), quando il presidente Scalfaro nominava un governo guidato dal governatore della Banca d’Italia Ciampi; nel 1995, nominava il primo governo composto da non parlamentari (il governo Dini); nel 2011, undici anni fa il presidente Napolitano nominava il governo Monti e infine, un anno fa, il presidente Mattarella il governo Draghi.
Ciò spiega il ricorso a nuove e diverse definizioni della figura presidenziale in Italia e l’idea che si sia di fronte a una sorta di “tutore” (“Italy’s nanny” nella beffarda definizione dell’”Economist”) di cui il sistema politico-istituzionale italiano non sa più fare a meno. Philippe Lauvaux nel suo ormai classico “Les grandes démocraties contemporaines” (ora con Armel Le Divellec, Paris, Puf, ed. 2015) parla per esempio dell’Italia come “regime parlamentare a correttivo presidenziale”. Si spiega anche la ragione per la quale è ricorrente l’idea che tale prassi abbia dato vita a una sorta di “semi-presidenzialismo di fatto”: con l’ulteriore conseguenza che forze politiche, studiosi ed opinione pubblica si dividono fra quanti ritengono si tratti di un’evoluzione patologica da invertire tornando a un più classico funzionamento del regime parlamentare, quanti ritengono che si tratti – al contrario – di un’evoluzione da assecondare introducendo l’elezione diretta del presidente (per accrescerne la legittimazione), quanti ritengono che si tratti di un’evoluzione superabile invece solo con un adeguato rafforzamento del circuito elezioni-Parlamento-Governo e del ruolo del presidente del consiglio (da trasformarsi in vero e proprio premier), e quanti – infine, e sono molti – ritengono che tutto sommato va bene così (perché è bene, a scanso di rischi autoritari, che il potere politico di governo resti in Italia debole).
Così un sistema politico che da anni non è in grado di esprimere governi stabili e che appare in permanente evoluzione finisce col pensare che molto (se non tutto) possa dipendere da chi sarà il proprio tutore. L’elezione del presidente diventa una variabile ritenuta in grado di influire sui destini di persone e partiti: di qui lo stato di fibrillazione alla vigilia dell’elezione del nuovo presidente, che avviene stavolta a un solo anno dalla scadenza delle Camere. Perciò da mesi non si parla d’altro e perciò tutti (opinion leaders inclusi, con rarissime eccezioni) sollevano questioni ed offrono valutazioni mai disinteressate. Le forze politiche, dal canto loro, esitano a scoprire le proprie carte e rimandano di giorno in giorno quell’intesa che pure la Costituzione imporrebbe, specie considerati gli equilibri parlamentari di questa legislatura. A differenza dalla Germania un presidente non può essere eletto a maggioranza relativa: ci vuole almeno la metà più uno dei componenti (e quella dei 2/3 nelle prime tre votazioni).
La consistenza dei 1009 aventi diritto al voto (951 parlamentari e 58 delegati regionali) è all’incirca questa: partiti di destra (tre principali più alcuni minori) circa 420-425; partiti di sinistra (tre principali più alcuni minori) altrettanti; partiti di centro circa 90; parlamentari fuoriusciti dal partito nel corso della legislatura (in particolare dal Movimento 5 Stelle), d’incerta collocazione circa 70. Siccome servono almeno 505 voti, il buon senso dice che un’intesa, almeno fra i partiti convinti dal presidente Mattarella a sostenere il governo Draghi, è l’unica strada ragionevole. Tanto più se si tiene conto della variabile Covid che potrebbe impedire a un certo numero di elettori (quanti? di quali partiti? oggi gli impediti per Covid sono circa 40) di prendere parte al voto: anche perché le presidenze delle due Camere si ostinano a non permettere l’unica cosa ragionevole, il voto a distanza per un collegio che, come in Germania, non discute ed è semplice seggio elettorale.
Invece, ad oggi, non è così. Tutti giocano a carte coperte. Oppure propongono o lasciano si facciano avanti candidature fatte a posta per dividere o prendere tempo come quella dell’ex presidente del Consiglio Berlusconi, che non riesce ad unificare la destra, indigna (e pour cause) metà del Paese e può solo portare a un braccio di ferro. Dato il quorum della metà più uno dei componenti, infatti, le votazioni possono durare – in teoria – all’infinito (vi sono stati, in anni lontani, presidenti eletti al 23 e al 21 scrutinio, il che appare oggi inaccettabile e rilanciarebbe la proposta di elezione diretta): con esiti imprevedibili e casuali. Anche se la storia dice che, alla fine, candidati buoni e qualche volta ottimi sono stati eletti con pochi voti (la prima elezione di Giorgio Napolitano avvenne con soli 543 voti; Leone ne ebbe 518), di tutto l’Italia avrebbe bisogno tranne che di un capo dello Stato eletto da una maggioranza partigiana e risicata.
Questa vicenda è complicata dal fatto che la persona di gran lunga più autorevole, con la sola eccezione del presidente uscente Mattarella è il presidente del Consiglio Draghi. Paradossalmente proprio il fatto di essere un premier d’indicazione presidenziale al di sopra dei partiti lo rende, al di là del prestigio personale, il candidato ideale. Se non che siamo in tanti a domandarci se egli sia più necessario al paese nel suo ruolo attuale (ma per un solo anno o poco più) oppure nel ruolo presidenziale (ma fino al 2029). E’ una scelta oggettivamente difficile: resa più acuta dalla considerazione che nessuno può dire, cosa succederebbe del governo, una vola eletto Draghi capo dello Stato. Sarebbero i partiti che oggi ne sorreggono l’esecutivo in grado di rendere il medesimo servizio ad un altro presidente del Consiglio, nell’anno che precede le elezioni? Può darsi, ma per questo occorrerebbe quella trasparente e pubblica intesa della quale le forze politiche si sono ad oggi mostrate incapaci. Il problema sta tutto qui: non nelle esercitazioni di alcuni costituzionalisti (e nelle finte preoccuoazioni di politici interessati) su tempi e modi del passaggio dei poteri in caso di elezione, per la prima volta, di un presidente del Consiglio in carica (anche in Italia la presidenza è incampatibile con qualsiasi altra carica: per cui Draghi dovrebbe dimettersi… nelle mani del predecessore all’ultimo giorno di mandato, e poi entrato incarica procedere a formare un nuovo governo).
Tutto ciò fa concludere che non ci sarebbe affatto da sorprendersi se per salvare il precario equilibrio instauratosi un anno or sono, ci si accordasse per una rielezione di Mattarella, che difficilmente potrebbe, io credo, sottrarsi. (Egli ha detto di ritenere inopportuna una rielezione, favorevole come diversi suoi predecessori ad introdurre in costituzione il limite di mandato, con abolizione del divieto di scioglimento negli ultimi sei mesi di mandato.) L’Italia, infatti, guadagnerebbe un altro anno almeno di preziosa stabilità e di buon governo, oltre a confermare un eccellente presidente.
Certo: fino alle elezioni del 2023. Ma finchè lo stivale non avrà fatto i conti con la sua forma di governo nazionale (quelle regionali e locali sono a posto da decenni), l’Italia continuerà ad essere un paese sempre in bilico, sempre bisognoso di tutele interne ed europee, sempre e comunque sull’orlo di periodiche crisi di nervi.
Presidente del Comitato scientifico di Libertà Eguale. Già professore ordinario di Diritto elettorale e parlamentare nell’Università di Firenze e già direttore del Dipartimento di diritto pubblico. Ha insegnato nell’Università di Pisa ed è stato “visiting professor” presso le università di Brema, Hiroshima e University College London. Presidente di Intercultura ONLUS dal 2004 al 2007, trustee di AFS IP dal 2007 al 2013; presidente della corte costituzionale di San
Marino dal 2014 al 2016; deputato al Parlamento italiano per il Partito repubblicano (1983-1984).