di Vittorio Ferla
Enrico Letta ha chiuso la porta in faccia al M5s sulla possibilità di un nuovo governo con l’appoggio esterno dei grillini: si continua così oppure elezioni subito, insomma. E ha promesso che non arretrerà di un millimetro sull’introduzione dello ius scholae (la cittadinanza per coloro che frequentano almeno cinque anni di scuola in Italia) e la legalizzazione della cannabis, le due bandiere che il Partito democratico vorrebbe portare in dote alle elezioni del 2023 e sulle quali la discussione riprenderà dal 12 luglio in poi. In attesa del nuovo duello ‘ideologico’ con il centrodestra, c’è da chiedersi come si muoveranno i dem nei prossimi mesi, in vista della lunga campagna elettorale per le politiche.
Le premesse, da punto di vista della segreteria dem, sono vantaggiose. C’è stata la buona prova numerica delle elezioni amministrative dove il Pd conquista diverse città, si conferma primo partito del centrosinistra e si dimostra perno necessario delle alleanze che dovranno costruirsi nei prossimi mesi. Lo spavento del 2018 quando il Pd era crollato al 18% è passato. Soprattutto, il partito ha retto alla minaccia di estinzione, evitando il precipizio in cui sono piombati i cugini francesi con la quasi sparizione del Psf, il partito di Delors, Mitterrand, Jospin e Hollande. Dall’altra parte, la crisi del centrodestra – con la perdita di diverse importanti città chiamate al voto – non sembra solo un incidente di percorso, ma fa emergere limiti evidenti di leadership, visione, coesione della coalizione e selezione della classe dirigente.
C’è un altro elemento che fa gongolare Letta. Durante questa travagliata legislatura, anche solo per ovvi motivi numerici, il Pd ha svolto un ruolo secondario, all’inizio di opposizione al governo gialloverde, poi di socio minore del governo giallorosso. Ciò nonostante, tutte le tornate elettorali regionali e amministrative hanno riaffermato quella logica bipolare che sembrava persa sia nelle grandi città (con l’affermazione di sindaci provenienti dal ‘terzo polo’ come Virginia Raggi a Roma e Chiara Appendino a Torino) che in parlamento (con la straripante vittoria del M5s). Dopo il voto di giugno, Enrico Letta può legittimamente concludere che la profezia della morte del bipolarismo per via dell’exploit pentastellato era infondata. I primi succubi di questo errore di valutazione erano stati proprio i dirigenti del Pd. Che – con Goffredo Bettini suggeritore e Nicola Zingaretti segretario – davano ormai per scontato il ritorno della palude proporzionale e fantasticavano la chimera del ‘campo largo’ con il M5s. Questa prospettiva, tuttavia, ha trasmesso l’immagine di un Pd subalterno, in balìa della deriva populista. Con la conseguenza di scissioni e nascita di nuove forze, da Italia Viva ad Azione, minori ma battagliere, determinate a salvaguardare e rilanciare l’approccio liberal-democratico e riformista, in totale contraddizione con il populismo grillino. Quando Matteo Renzi ha disarcionato Giuseppe Conte dalla guida del governo e Sergio Mattarella ha insediato Mario Draghi a Palazzo Chigi, dando vita al governo del presidente, lo scenario è completamente mutato. Provocando lo smottamento nel Pd: via Zingaretti, dunque, e dentro Letta. Il nuovo segretario, all’inizio, ha pigramente ereditato la chimera del ‘campo largo’ con il M5s. Allo stesso tempo, ha subito capito che diventare il pilastro dell’agenda Draghi avrebbe premiato la strategia dem, riportando il partito a svolgere il ruolo di leader di coalizione sulla base di un progetto riformista. Così si spiega il sostegno senza tentennamenti del Pd al governo Mattarella-Draghi ai fini dell’attuazione del Pnrr. Così si spiega la fedeltà assoluta alle scelte presidenziali di condanna risoluta della Russia e di sostegno totale all’Ucraina. Nel primo caso, Letta ha saputo gestire le sirene socialpopuliste che agitano un’ampia porzione del suo partito. Nel secondo caso, ha assorbito le resistenze pacifiste e antiamericane, molto forti in quella tradizione politica. In tal modo, il segretario dem è riuscito a schierare i suoi sul fronte esplicitamente europeista e atlantista del governo e oggi presidia l’agenda Draghi più di ogni altra formazione politica. L’opposizione della Meloni, i capricci di Salvini e le vaghezze di Berlusconi, infatti, impediscono al centrodestra di assumere come propria l’agenda Draghi. Per non parlare del M5s che, in preda a convulsioni letali, appare oggi come il partito più provato dal sostegno al governo del presidente. Sostenitori accesi dell’esecutivo sono, invece, i partiti liberali e centristi minori, numericamente troppo piccoli e politicamente troppo divisi, per ora, per interpretare il ruolo di forza maggioritaria che il Pd potrebbe svolgere se solo lo volesse. Oggi però la disfatta elettorale e l’evaporazione politica dei Cinquestelle – che sentono di nuovo il richiamo della foresta del ‘no’ a tutto e tornano a sognare le comodità dell’opposizione – scrive la parola fine su quel progetto di campo largo che tanto sapeva di accozzaglia demopopulista. Ciò nonostante, Enrico Letta a parole riconferma l’alleanza. Certo, aprire un fronte polemico con i grillini mentre sono in difficoltà significherebbe far esplodere tutto in un anno cruciale di campagna elettorale. Ma le contraddizioni restano. Nemmeno basta vagheggiare Ulivo, nome glorioso per i nostalgici, ma superato dalla storia. L’Ulivo fu un progetto vincente oltre che il progenitore del Partito Democratico, ma poi si trasformò nell’Unione, una coalizione rissosa e inconcludente. E oggi proprio non si capisce come potrebbe tornare a funzionare con i ‘cespugli’ di oggi.
La sfida ‘ulivista’ del Pd – tenere la corsia centrale della coalizione mentre governa le due ali – appare ardua. L’ala sinistra (e socialpopulista), rappresentata dai rottami della sinistra storica e del M5s, non pare promettere granché, né in termini di consenso, né tantomeno in termini di agenda politica. L’ala destra (liberalriformista), con Di Maio che va ad aggiungersi a Renzi, Calenda e compagnia, appare un condominio molto confuso e litigioso, spendibile grazie al posizionamento nella famiglia dei liberali europei e macroniani, ma ingovernabile per la presenza di troppi generali sprovvisti di truppe. Nel frattempo, sventolare qualche pur bella e necessaria bandiera – come quella della cittadinanza italiana ai giovani immigrati formati nelle nostre scuole – non sarà sufficiente a Letta per qualificare il suo progetto riformista. Semmai, la chiave del successo sarà nella capacità di valorizzare e rendere popolare l’agenda Draghi e di conquistare la massa di elettori astenuti. Ma il tempo stringe.
Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de ‘Il Riformista’, si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).