di Alberto De Bernardi
Ormai le elezioni americane si sono concluse, nonostante Trump tenti di inquinare i pozzi della democrazia americana pur di non ammettere la sconfitta, e hanno espresso un consenso consistente e trasversale per il ticket democratico Biden-Harris, che si è venuto rafforzando nei giorni successivo al c’è stata ed è risultata più consistente di quanto apparve a poche ore dalla chiusura dei seggi e cominciavano a pervenire i primi dati. Oggi possiamo dire che i sondaggisti avevano sbagliato di meno di quanto rilevarono il 4 novembre molti commentatori: Biden ha distanziato il suo competitor di oltre 5 milioni di voti e la forbice man mano che vengono scrutinati i voti postali è destinata a crescere, come quella che riguarda i grandi elettori; infatti il candidato democratico ha gia superati i trecento mentre Trump resta inchiodato a 214, a dimostrazione che la coppia Biden-Harris ha riconquistato stati decisivi che nel ’16 avevano scelto Trump. La grande mobilitazione civile che ha accresciuto in maniera significativa il numero dei votanti che hanno massicciamente usufruito del voto postale, non si è spalmata omogeneamente sui due candidati ma ha premiato soprattutto Biden facendone il presidente che ha ottenuto il maggior numero di consensi nella storia americana.
La destra del rimpianto
Di fronte a questo esito le reazioni delle forze politiche italiane si presentano poco lineari e meno scontate del previsto e con una gamma di articolazioni che in molti casi appaiono sorprendenti. Nel campo del cdx emerge soprattutto la frattura tra i due partiti sovranisti e populisti di Salvini e Meloni, che rimpiangono il tempo che fu e come il loro Trump negano la vittoria dei democratici, frutto di brogli e di colpi di mano, e FI, che riconferma la sua appartenenza al conservatorismo filoatlantico rappresentato dalla destra democratica repubblicana dei Bush e del McCain, e riconosce il risultato ed è disposta a collaborare con il nuovo presidente. Berlusconi disconosce le sue origini che lo faceva il vero antesignano del trumpismo, e aggiunge un’altra divisione nel proprio campo politico, accentuando il carattere strumentale e velleitario dell’alleanza di cdx, che non reggerebbe alla prova di governo, perché divisa sul tema centrale dello schieramento internazionale.
Il M5S: un asino di Buridano
La sconfitta di Trump è una ferita aperta anche per il M5S e il premier Conte che lo avevano apertamente sostenuto nel 2016, sulla base di un argomento che è riemerso prepotentemente non solo nello spazio del populismo nostrano anche in queste elezioni: l’”anticasta”. Trump era il campione della lotta contro l’establishment, espressione del popolo che combatte contro “i poteri forti”, contro gli esponenti di una sorta di ZTL planetaria allora rappresentata dalla Clinton. A questo si aggiungeva l’adesione all’antiglobalismo, espresso dal tycoon americano nel suo slogan dell’ “America first” e nelle sue convinzioni protezionistiche, che costituì una delle più solide basi programmatiche del governo giallo-verde ( Conte I), ben riconoscibile anche nelle ricadute antieuropeiste e filo putiniane.
Questa “relazione speciale” del grillismo con il trumpismo ha resistito anche quando è caduto il governo giallo-verde e i Conte e il M5S hanno costruito con il cxs il governo giallo-rosso che ha costretto il movimento a addolcire il suo antieuropeismo, il suo antiatlantismo, a occultare la sua anima più esplicitamente di destra, sostenuta da Di Battista, ma non a rinnegare quell’alleanza. Infatti ora né il Ministro degli Esteri e il Presidente del Consiglio si sono congratulati con Biden per la vittoria elettorale. Se non ci fosse stato Mattarella a tirar fuori d’impaccio l’Italia, il silenzio di Conte e del M5S conferma non solo che l’adesione al trumpismo declinante impedisce al nostro paese di avere una politica estera in linea con quella dei altri paesi europei più influenti, ma soprattutto quali danni profondi abbia prodotto all’immagine dell’Italia nel mondo la vittoria populista del 2018: la subalternità all’ “internazionale antiliberale e autocratica” dei Putin, dei Trump, dei Maduro, degli Orban, allontana l’Italia dall’alveo della sua tradizionale collocazione internazionale nel campo delle democrazie liberali avanzate, spostandola in una terra di nessuno senza futuro e senza senso. Nonostante Mattarella e le prese di posizione del Pd, di IV e di Leu il vulnus resta in tutta la sua gravità e certifica una paralisi politico rilevante perché la collocazione internazionale è il baricentro dell’azione politica di ogni governo, che nella temperie che stiamo vivendo stabilisce da quale parte si sta nella faglia fondamentale che divide il mondo, cioè tra populismo e democrazia liberale. Invece di cogliere l’occasione per proseguire sull’impervio cammino di ridefinire la propria identità politica al di fuori dell’orizzonte populista, come era accaduto in Europa con il sostegno a Ursula von der Leyen, il M5S con quell’ imbarazzato Il silenzio certifica che il voto di un anno fa era una eccezione, mentre ribadisce che il suo campo di appartenenza resta quello originario.
La sinistra del rimpianto
Ma anche a sinistra il quadro manifesta un inquietante insieme di ombre, che mettono in evidenza come le ancestrali pulsioni populiste combinate con i vecchi retaggi antiamericani e antiliberali, derivanti dalle eredità socialiste, siano confluite in una mistura ideologica confusa e opaca che impedisce di riconoscersi a pieno nel successo democratico e che riproduce su scala planetaria le fratture di casa nostra. Si delinea così una sorta di “sinistra per Trump” che avrebbe accettato la sconfitta del presidente populista solo se a realizzarla fosse stato lo speculare populismo di Sanders e di Ocasio-Cortez. In questo caso avrebbero vinto davvero le famose periferie dei poveri contro il centro dei ricchi, gli operai del Midwest, contro le élites degli stati delle due coste oceaniche, le minoranze razziali contro la maggioranza bianca, gli antiglobalisti green contro i globalisti filocapitalisti: solo in questo caso la sinistra avrebbe potuto festeggiare una vittoria che sentiva appartenerle e abbandonare Trump senza rimpianto. Senza questo esito per questa sinistra del rimpianto e del disincanto sarebbe stato meglio perdere bene con il “socialista” Sanders piuttosto che vincere male (poi neanche tanto) con il liberaldemocratico Biden, ripentendo lo stesso errore fatto con Corbyn, che ci ha regalato il trionfo di Johnson: una battaglia di bandiera che scalda i cuori, esalta l’identità ma che rifiuta di prendere atto che nelle democrazie moderne, non polarizzate da antagonismo sistemici, è il governo la posta in gioco dell’agire politico; se non lo raggiungi hai perso.
Biden non è di sinistra
Ma con la vittoria di Biden – solo in parte medicata dalla vicepresidente donna asioamericana, per la sua appartenenza alle élites californiane – il quadro invece cambia per una ragione semplicissima: Biden non è di sinistra, ma appartiene a quella sinistra liberale che una parte molto consistente della sinistra italiana, soprattutto di tradizione comunista, non ha mai considerato parte integrante del proprio campo politico, come Blair, come Veltroni, come Renzi, come Clinton o addirittura Kennedy. E allora, seppur implicitamente, meglio Trump o piuttosto meglio mantenere una sorta equidistanza che si traduce in analisi del voto arzigogolate: Biden ha vinto ma Trump non ha perso, e quindi il nuovo presidente non riuscirà a realizzare il suo programma; Biden ha vinto ma non ha riconquistato il voto popolare che resta nelle mani di Trump (affermazione palesemente falsa), e quindi rappresenta il ritorno al potere delle vecchie élites e ciò accentuerà ancor di più la frattura tra masse e potere politico negli Stati Uniti (certo un élite di oltre 80 milioni di persone, gli elettori di Biden, é ben numerosa, come ha notato Riotta); Biden è Trump sono identiche espressioni dell’imperialismo americano e quindi non cambierà nulla: insomma la vittoria di Biden, un vecchio politico di professione, simbolo stesso della casta, non appartiene alla sinistra, perché rappresenta il ritorno del “sistema”, mentre Trump coagulava prepotentemente forze antisistema.
Da questa somma di stereotipi deriva un intreccio di nostalgia e delusione che neanche la presenza della Harris riesce a cancellare, anche perché Kamala, nonostante le sue origini, ha avuto una folgorante carriera nel sistema giudiziario statunitense ed era amica della Clinton, esempio eponimo delle élites radical chic, che la colloca dunque tra gli avversari e non tra gli “amici del popolo”. E’ la visione populista del “popolo” a sottendere questi approcci e punti di vista: un popolo “contro”, vittima della democrazia piuttosto che il suo principale attore, escluso e impaurito, proiettato in un mondo “profondo” (“America profonda” emette lo stesso suono di “profondo sud”, cioè lontana e incomprensibile) dal quale solo un capo carismatico lo può tirare fuori e ridargli quella cittadinanza che le elites progressiste gli negano: una bugia più sudamericana e mediterranea che statunitense, ma che in questa profonda crisi che sta vivendo la democrazia liberale occidentale, può far presa non solo a destra, ma anche a sinistra.
Contro questo nemico della democrazia, infido e potente, il vecchio Joe e la rampante Kamala hanno ingaggiato uno scontro arduo e dagli esiti del tutti incerti, anche se hanno vinto la prima decisiva partita, che non è non dissimile da quelli che si combattono in altri paesi dell’Occidente. Ma dall’altra sponda del pacifico arriva per noi europei un messaggio chiaro: il populismo si può sconfiggere, senza giri di valzer tra compagni di strada, senza assumerne neanche dosi omeopatiche, senza vagheggiare nessun idem sentire né comunanze d’intenti. In Italia sono assai pochi e deboli quelli che lo stanno raccogliendo.
Professore di Storia Contemporanea all’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Presidente della Fondazione PER – Progresso Europa Riforme. Componente del Comitato scientifico di Libertà Eguale. Tra i suoi libri più recenti: “Fascismo e antifascismo. Storia, memoria e culture politiche”, Donzelli Editore 2018, e “Il paese dei maccheroni. Storia sociale della pasta”, Donzelli Editore 2019