“La democrazia, scriveva Norberto Bobbio, alimenta aspettative che non è in grado di soddisfare”. Ampliando i margini di libertà e alimentando il “mito” dell’uguaglianza, la democrazia dilata le aspettative degli individui di poter realizzare i propri progetti, di esplorare l’ignoto travolgendo ogni limite, di proiettarsi continuamente nel futuro non accontentandosi mai di quello che si ha. Se a ciò si aggiunge la travolgente velocità con cui la tecnologia sta cambiando la nostra vita, ecco spiegata la crescente ansia dell’homo democraticus per ciò che non-ha-ancora, che non di rado diventa frustrazione per non averlo qui e ora.
Ecco, le democrazie vivono in questo precario equilibrio, e sono tanto più solide quanto più riescono a minimizzare le aspettative disattese. Cosa sempre più difficile, visto che nei regimi democratici tende a crescere l’asimmetria temporale tra l’urgenza delle aspettative degli individui e la lentezza delle risposte della politica. I cittadini democratici si aspettano risposte sempre più rapide e immediate; spesso giudicano una misura politica prima ancora che essa abbia i tempi tecnici per produrre i propri effetti. E questo non può che accrescere la loro insoddisfazione. I tempi degli individui e quelli delle istituzioni tendono a confliggere, e cala la fiducia nella democrazia.
Questa frustrazione delle aspettative trasforma le crisi economiche in uno dei più subdoli nemici delle democrazie. Bruciando tante speranze, deprimendo l’ansia di futuro con le difficoltà del presente, le difficoltà economiche riducono la fiducia nell’idea stessa democrazia, la quale in questo modo corre il rischio di essere vittima delle speranze che ha alimentato. E’ quello che sta succedendo in questi tempi in Europa. Le frustrazioni prodotte dalla lunghissima crisi economica, le paure generate dall’immigrazione, le incertezze del mondo globale e la minaccia alle identità tradizionali portata dalla globalizzazione, stanno pericolosamente alimentando un sentimento di sfiducia nella democrazia e di rifiuto dell’idea di Europa unita, come testimonia l’affermazione dei tanti populismi nel Vecchio Continente e la Brexit.
Inoltre, a far pericolosamente impennare le aspettative disattese e a far crescere dall’interno il risentimento contro la democrazia e contro l’Europa, interviene un fenomeno puramente culturale: la perdita di “senso storico” del cittadino democratico. Il cittadino europeo è sempre più proiettato nel futuro, sempre meno soddisfatto del presente e quasi privo di senso storico, tanto da reagire quasi con fastidio al richiamo di non dimenticare la lezione che ci viene dal passato.
Così in tanti rivolgono la propria insoddisfazione contro l’Europa; un sentimento che, in mancanza di memoria storica, finisce spesso per sfociare in un vero e proprio rifiuto dell’Unione europea. L’idea che per la prima volta nella sua storia il Vecchio continente abbia vissuto settant’anni di pace e di sviluppo, che per la prima volta oggi abbiamo in Europa una generazione che è arrivata all’età più adulta senza aver conosciuto la guerra, sembra essere una curiosità per pochi. Gli stessi che non dimenticano che ogni metro quadro del Vecchio continente è inzuppato di sangue versato per interminabili guerre, che gli stermini del Novecento hanno prodotto in meno di trent’anni circa 70 milioni di morti e che solo qualche decennio fa, praticamente ieri dal punto di vista storico, nel cuore dell’Europa, dove oggi sono quelle istituzioni nella quali i popoli europei per convinzione e per convenienza decidono insieme i propri destini, vi erano i campi di concentramento in cui europei sterminavano altri europei.
Ecco, il dibattito di oggi è orfano di questa prospettiva storica, con la nefasta conseguenza di scambiare l’albero per la foresta, identificando l’Unione europea con i suoi tanti e gravi difetti, tanto da indurre molti a convincersi che l’unico modo per correggerli è quello di abbandonare l’idea stessa di Europa unita. Certo, siamo tutti d’accordo che il “mito fondativo” che spinse i padri dell’Europa da solo non basta a darle oggi una prospettiva. E tuttavia tra i “nativi democratici”, che oggi costituiscono la stragrande maggioranza degli Europei, è poco diffusa la consapevolezza che la democrazia è un’acquisizione reversibile, che è una pericolosa illusione credere che non la perderemo mai e che essa, come tutti gli altri regimi, ha una vita storica che dipende soprattutto dalle idee degli individui che la difendono. E tra queste idee vi è indubbiamente anche quella dell’Europa unita, che in questi settant’anni ha messo insieme le forze per difendere la democrazia da un catalogo, che si è continuamente aggiornato, di vecchi e nuovi nemici, sempre più pericolosi.
“Il prezzo della libertà, scrive Karl Popper, è l’eterna vigilanza”. Aspettative troppo elevate e perdita di “senso storico” sono oggi due pericolosi nemici interni alla democrazia contro i quali occorre una speciale vigilanza; una vigilanza culturale che rafforzi la formazione umanistica del cittadino democratico, uno dei più efficaci anticorpi per difendere la democrazia dalle frustrazioni che essa stessa alimenta.
Professore ordinario di Filosofia della scienza e Direttore del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università del Molise. E’ inoltre docente di Metodologia delle scienze sociali alla Luiss. E’ autore di molti saggi pubblicati in Italia e all’estero sui temi dell’epistemologia delle scienze umane e della teoria politica. I suoi ultimi libri sono: “Epistemologia del dialogo”, Carocci, 2012; “Ermeneutica ed economia”, Rubbettino, 2014; “Philosophy of Social Sciences”, Bardwell Press, Oxford, 2016.