di Nicolò Addario
Quanto segue è solo un insieme di appunti, un promemoria per l’elaborazione di una possibile “mappa cognitiva” per la politica di sinistra (di matrice liberal-socialista) nel XXI secolo. Ritengo che tale questione vada affrontata con una analisi storica di lungo periodo che tenga conto delle circostanze particolari in cui nacque e si affermò nell’Europa occidentale continentale il socialismo, particolarmente nella sua versione marxista.
Un’analisi storica di lungo periodo
La mia ipotesi generale è che la particolare presa del marxismo, specie nella sua versione estrema (socialisti radicali, comunisti, anarcosindacalisti) sia stata parte di quella “reazione” alla modernità che è stata tipica dei paesi “second comers”. Di quei paesi, cioè, che arrivarono tardi alla modernità, diciamo dopo il fallimento della “restaurazione” seguita alla sconfitta di Napoleone, e mediante “rivoluzioni dall’alto” imposte dalle monarchie assolutistiche per mere ragioni di potenza. È stato il tentativo delle élites aristocratiche di acquisire la potenza che mostrava l’Inghilterra (che aveva già alle spalle più di un secolo di rivoluzione industriale e un governo parlamentare) senza peraltro le sue libertà. In sintesi, si potrebbe dire che è stato il tentativo di avere una sorta di capitalismo accentrato e autoritario senza uno stato liberale. In tale contesto, come sappiamo, particolarmente nell’area tedesca si svilupparono tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, due tipi di reazione prevalenti dalla comune radice romantica (romantica perché guardava con nostalgia e, per certi aspetti persino ammirazione, al lontano passato medioevale e/o “comunitario”, sebbene fosse consapevole che almeno certi aspetti del “progresso” fossero inevitabili).
La prima era conservatrice o persino reazionaria, centrata su un’idea di nazione fortemente autoritaria e gerarchica che si richiamava al concetto metafisico di Volksgeist, qualcosa di molto simile al Corpus Mysticum della concezione tardomedioevale della società delle corporazioni. A quel tempo non v’era “ente collettivo” che non fosse inteso come communitas o universitas, parte integrata dei “tre stati”, un ordine gerarchico unitario voluto da dio. Più precisamente, nell’Inghilterra del XVI secolo si affermò la dottrina del doppio corpo del Re: il corpus mysticum (che in origine la teologia riferiva all’eucarestia), che “non muore mai”, e quello mortale.
In Francia prevalsero altre forme di divinizzazione della monarchia (come i re taumaturghi di cui ha parlato Bloch). L’idea di corpus mysticum aveva però radici teologico-giuridiche che si erano consolidate in tutta l’Europa tardomedioevale e servì per elaborare una delle varie versioni dell’origine divina dei Re. Il termine di “corporazione”, “corporation”, “Körperschaft” ha questa origine: serve per cogliere quella “istituzione” che sopravvive ai membri che lo compongono e che perciò è “immortale” oltre che “organica”, come appunto un “corpo”. “Corpi” che peraltro erano in una relazione gerarchica voluta da dio e quindi immutabile, oltre che sacra.
Al tempo dell’Illuminismo e della rivoluzione francese il Romanticismo (tedesco) trasferì questa idea al popolo per concepirlo come una nazione particolare, con una peculiare identità quasi naturale (proprio nel senso della natura di un certo territorio oltre che di una lingua). Un Volksgeist, appunto, che come un corpo era dotato di una testa, di una anima e membra come fosse un sol individuo. In Germania questa idea fece da perno per la costruzione del II Reich e portò alla I guerra mondiale.
L’altra idea, venuta un po’ più tardi, quando le rivoluzioni dall’alto iniziavano a produrre i loro primi effetti, ma si guardava principalmente a quanto accadeva in Inghilterra e in Francia, fu egemonizzata dal “socialismo scientifico” di Karl Marx e si diffuse ovunque in Europa, specie là dove l’industrializzazione iniziava a diffondersi massicciamente. Le rivoluzioni del 1848-49 furono la risposta ancora liberale (che la modernità portava con sé dall’Inghilterra e dalla Francia, ma in chiave utilitarista e positivista) a questo accelerato e forzato cambiamento socio-economico privo delle correlate libertà politiche. Ma in tali contesti il liberalismo non riuscì a prevalere, così presero forza due concezioni antisistema: quella socialista e poi comunista e quella nazionalista monarchica e fortemente autoritaria che produrrà (nell’Europa del Centro-Sud) il fascismo e il nazismo.
Con questo voglio solo ricordare che nell’Europa continentale (con la parziale eccezione dei paesi scandinavi) la modernità fu fortemente contrastata a cavallo di Otto e Novecento da due forti ideologie antisistema. Ambedue, pur con motivazioni molto diverse, volevano l’industrialismo ma negavano il liberalismo e la democrazia. Ambedue si fondavano su una concezione della società che si richiamava al concetto filosofico (fondamentalmente hegeliano, ma risalente ad Aristotele e ripreso dalla tradizione teologica cristiana) di Totalità Organica: un Tutto costituito sì da parti, ma capace di agire come un sol corpo (ovviamente guidato dalla sua testa, il partito avanguardia o il Führer; si veda, ad esempio, un intellettuale del tempo come il Plenge, 2008).
Il senso del riformismo di sinistra
È tenendo conto di questo contesto storico che credo si debba discutere il senso, oggi, del riformismo di sinistra, quello che proviene dalla trazione social-comunista. La mia ipotesi di fondo è che sia propria questa storia, con i tutti i suoi lasciti (positivi ma anche tragici), che in questo nuovo millennio sia giunto alla sua definitiva conclusione. Se questo è vero, la vecchia distinzione tra sinistra riformista e sinistra rivoluzionaria o radicale credo venga definitivamente meno. Infatti, anche la sinistra riformista (ovviamente, chi più chi meno) ha mantenuto l’idea generale che fosse non solo possibile ma persino doveroso “costruire” una sorta di società ideale. Ciò avveniva, per ragioni allora ovvie, al livello dei singoli stati nazionali. Non solo questo oggi non può più essere praticato seriamente, ma quell’idea in qualche modo conteneva ancora un equivoco di fondo. In misura maggiore o minore l’equivoco era rappresentato dalla credenza che la politica potesse “plasmare”, per così dire, la società secondo intenzione, invece che “assecondarla” nei suoi mutamenti spontanei, e in base (come chiarirò) a valori reputati assoluti (o “fini ultimi”).
Questo è quanto vorrei provare ad approfondire, soprattutto con riguardo all’Italia.
1. La crisi del socialismo europeo
Da tempo molti osservatori sostengono la tesi della crisi del socialismo europeo. Diversi risultati elettorali negativi hanno confermato questa tesi, la quale era già stata avanzata considerando tanto le policies proposte o praticate quanto la progressiva ed evidente erosione degli stessi valori socialdemocratici. Non per caso il tentativo portato avanti tempo fa (era il 1994) da Anthony Giddens era proprio centrato sulla questione dai valori socialisti. Ma altrettanto non casualmente fu un insuccesso. Il punto era ed è che dopo il collasso (essenzialmente endogeno) del “socialismo reale” è diventato assai problematico anche per i liberal-socialisti distinguersi veramente da quella tradizione (sul piano socioeconomico). Con la fine del socialismo reale non sono morte soltanto tutte le vie “rivoluzionarie”, che ovunque hanno prodotto dittature e sottosviluppo. È venuta meno anche l’idea stessa di socialismo e dunque anche l’idea di uguaglianza socioeconomica. L’idea di un “socialismo democratico”, infatti, continuava a rinviare in modo anche abbastanza esplicito a una sorta di socialismo perseguito democraticamente. Non per caso si cominciò all’incirca proprio allora ad accoppiare liberalismo e socialismo: il riferimento alla sola democrazia non bastava più.
Giddens, peraltro, era consapevole del problema. Il partito laburista di Blair parlava infatti di “terza via”, intendendo con ciò qualcosa di diverso e di nuovo rispetto anche alla stessa tradizionale socialdemocrazia. Dopo poco più di trecento pagine il risultato fu però francamente deludente. In sostanza, dopo avere evocato la necessità di “nuovi valori”, Giddens ribadiva i tradizionali valori (“borghesi”) di emancipazione e uguaglianza, dato che ormai sul piano della mera democrazia non ci si poteva differenziare dai conservatori. Valori che in ogni caso risultavano già messi in seria difficoltà dalla globalizzazione. Forse proprio per questo Giddens andava alla ricerca di nuovi valori.
Il fallimento, tuttavia, di ogni tipo di esperimento socialista (anche nel “terzo mondo”) dovrebbe aver segnalato che la globalizzazione non è di per sé la “causa”, ma “solo” una circostanza (storica) di ulteriore erosione. Forse è utile ricordare che lo stesso partito laburista dal secondo dopoguerra e sino almeno a tutti gli anni ottanta si era continuamente interrogato sul seguente dilemma: “se … dovesse limitarsi ad amministrare più umanamente ed efficientemente la società capitalistica, o se dovesse modificarsi per essere in grado di creare una società socialista” (Miliband, 1968: 395). Con la caduta del muro di Berlino la seconda alternativa veniva definitivamente meno. Giddens in fondo si interrogava su come la prima via potesse essere perseguita nelle nuove circostanze globali e in un paese comunque altamente sviluppato, ma in modo differente dalla via conservatrice. Ma curiosamente (o significativamente!) non pensava a un nuovo tipo di socialismo, quanto piuttosto a una cosa che chiamava “politica radicale”. Per questo dico che in fondo, seppur in modo confuso, Giddens coglieva che l’idea stessa di socialismo (pur inteso alla maniera socialdemocratica) era venuta meno. In realtà, a mio parere, con le sue immani tragedie il XX secolo è stato il prolungamento esasperato del secolo precedente. Con il XXI e a seguito del collasso del “socialismo reale” questo capitolo della storia dell’umanità si chiude definitivamente. Manca tuttavia (almeno da noi) una chiara consapevolezza di questa cesura storica e delle sue conseguenze politiche e culturali.
Su questo occorre dunque soffermarci. Storicamente, nei paesi democratici avanzati, si è pensato che il cosiddetto welfare fosse in buona parte una conseguenza del perseguimento dei valori della sinistra riformista, del socialismo, quasi certamente la concretizzazione di quei valori. Recentemente se ne è parlato come della componente “socialista” della liberal-democrazia (Cassese). Tuttavia, già qui si pone una domanda o avrebbe dovuto porsi. Le destre (sia democratica che conservatrice e persino quella reazionaria) sono state di fatto e di principio contro il welfare? Per niente! Persino negli Stati Uniti, dove l’individualismo mercatista è particolarmente radicato (specie tra i repubblicani), il welfare è presente, seppur in forme alquanto più attenuate (a seconda degli Stati). In Europa, in ogni caso, destra e sinistra in pratica sono stati su questo indistinguibili. È stata la conseguenza della progressiva inclusione delle masse nella politica, tanto che in alcuni paesi sono stati i conservatori illiberali a introdurre le prime forme di assicurazione sociale (in questo non ci si deve far deviare dalla “ondata” liberista della Thatcher e Reagan, che fu una reazione al massiccio statalismo del primo dopoguerra sino ai primi anni Ottanta). Inoltre, quasi ovunque, là dove il sistema istituzionale e quello elettorale hanno consentito periodiche alternanze di governo, gli studiosi hanno sostenuto che di solito il ciclo elettorale sia stato cadenzato da quello economico: se l’economia andava male era penalizzato il partito (o la coalizione) di governo (questo è stato verso anche per gli USA).
A parte un punto su cui tornerò, sembra quindi che sul piano del vasto elettorato la tradizionale distinzione destra/sinistra c’entri con i valori meno di quanto sovente si creda (almeno a sinistra). Più importante sembra l’andamento dell’economia. Inoltre, vari studi attestano che a domande riguardanti le policies moltissimi intervistati danno risposte in contraddizione con la loro autocollocazione nella spazio destra/sinistra (Campus, 2000). I valori, a mio avviso, valgono soprattutto per i politici (e i militanti) e, quindi, per la comunicazione politica: sono “segnali” per la distinzione e il riconoscimento reciproci (specie per i militanti).
Oggi, nell’era della TV e dei media – vecchi e nuovi – un’analoga funzione è soprattutto svolta dai leaders. Come i valori un tempo, anche il leader è per il grande pubblico un forte riduttore di complessità. Il leader, però, non soffre dei limiti di cui invece soffrono i valori. I suoi limiti stanno nel fatto che, come dire, a volte c’è e a volte no. Il “carisma” (seppur di nuovo tipo, vista l’attuale importanza della TV) è qualcosa che non si può “creare”. È una qualità poco definibile e che riguarda proprio singole persone. In generale, quindi, un buon partito di massa che non abbia in un dato momento un leader carismatico parte in salita, specie se dall’altra parte dispongono invece di un tale leader.
Ciò che storicamente ha messo d’accordo destra e sinistra sul welfare è stato che era ed è fonte di consenso popolare in ogni tipo di regime in quanto società di massa. In Occidente e nel secondo dopoguerra, nel contempo, era la versione più razionale e funzionale del keynesismo, il quale si era dimostrato come la teoria più efficace sia per politiche economiche anticicliche sia per policies capaci di anticipare e promuovere lo sviluppo. Ai socialisti europei questo offriva un’arma politico-ideologica per ribadire, sul piano internazionale, il loro schieramento con l’Occidente e il suo modello sociale e per contrastare, all’interno, i vari gruppi radicali e i partiti comunisti. Ma che i partiti socialisti (specie quelli capaci di andare al governo) abbiano fatto del welfare una “conquista” contro i conservatori è potuto passare per vero solo per una serie di coincidenze storiche (il confronto col “socialismo reale”, economicamente assai più arretrato) e perché essi si presentavano (anche sul piano della propaganda) come il “partito del lavoro”. Anche quando, come i tedeschi, si definivano il “partito del popolo” era sottinteso che questo popolo fosse per lo più costituito da lavoratori dipendenti.
Tuttavia, lo ripeto, non è che sul piano stesso dei valori i grandi partiti conservatori (o “popolari”) d’Europa avessero un atteggiamento di rifiuto del welfare. Al contrario. In realtà, sul piano strutturale, il welfare è lo sviluppo “naturale” della funzione che lo stato viene ad assumere mano a mano che lo sviluppo economico, sempre più intenso ed esteso, spinge all’inclusione delle grandi masse nella politica. Infatti inizia già verso la fine dell’Ottocento, con l’estensione progressiva dello stato liberale (a suffragio ristretto) a stato democratico.
C’è dunque una forte componente strutturale nel welfare, una componente richiesta proprio dalla differenziazione funzionale. Che la realizzazione di questa componente sia stata accompagnata da una comunicazione politica valoriale è solo parte del gioco politico dei partiti, sindacati, associazioni. Facilitato dal fatto che nel corso di questo sviluppo sono sorte, specie col marxismo, concezioni che rappresentavano il conflitto tra capitale e lavoro come una vera “frattura sociale”, una lotta tra classi. In tale contesto (molto continentale e da paesi “second comers”: Germania, Italia e in parte anche Francia), si creò inizialmente (tra fine Ottocento e la metà del secolo seguente) una spaccatura tra “riformisti” e “rivoluzionari” (quindi tra socialisti e comunisti, specie dopo la Rivoluzione d’Ottobre). Ma in prevalenza ambedue si professarono marxisti (in Italia i socialisti sino alla fine degli anni settanta). Il socialismo democratico si poté così intestare il welfare come una “conquista” molto prossima ai suoi valori umanitari. Questa parte della storia ha finito per certi aspetti per coprire l’analogo contributo popolar-conservatore. Questa vicenda segnale, tra le altre cose, che c’è qualcosa nell’idea che abbiamo dei valori che non funziona. Su questo vorrei ora soffermarmi.
2. Valori e politica
Una cosa che anche nella letteratura specialistica è raramente discussa (e quando lo è, per esempio nella filosofia della giustizia, a mio avviso in modo sbagliato, perché ha un approccio normativo che quasi prescinde dall’analisi della struttura della modernità) è se i valori siano proprio ciò che si ritiene siano. E se è vero che generino consenso. In realtà, la tendenza generale a dare per scontato che essi funzionino bene, proprio in politica (oltre che nelle religioni), e che generino consenso è il punto critico cui accennavo. Secondo questa credenza, il loro successo sarebbe solo o principalmente una questione, per così dire, di scelta e di diffusione (magari nel conflitto) e quindi di comunicazione (quantomeno in democrazia, dove la libertà di opinione e di espressione è garantita). Purtroppo le cose sono assai più complicate. Vediamo più in dettaglio.
Innanzitutto cosa sono i valori? Chi forse più di tutti li ha studiali (Talcott Parsons) li definì “stati del mondo desiderabili” (cito a memoria). Mi sembra una buona definizione, specie se riferita alla politica, ma questo non basa (a molti apparirà riduttiva, specie a coloro che pensano ai valori come una sorta di “fini ultimi”, una concezione, questa e come vedremo, pericolosa). Hanna Arendt (1970) osservò che l’idea di “valore” si era affermata solo nell’Ottocento, quando l’antica concezione cristiana della società (la communitas christianorum) era stata sostituita da un nuovo paradigma basato sul concetto di “relazione tra uomini”. L’antica idea cristiana, elaborata tramite la teologia con il ricorso alla filosofia greco-romana, concepiva le “idee” come “verità rivelate”. In quanto tali, esse rivelavano (in particolare alle Autorità, cioè alla Chiesa) le essenze eterne di cui era fatto il cosmo e consentivano, perciò, di “riconoscere e misurare i pensieri e l’azione dell’uomo”, secondo un ordine prestabilito, gerarchico e immutabile.
La società moderna, per contro, ha sostituito tali “unità trascendenti” con i “valori funzionali”, i quali sono “merci sociali prive di significato proprio, esistenti, come tutte le altre merci, solo in funzione della relazione sempre mutevole del commercio e dei vincoli sociali. Attraverso questa relativizzazione…. [tutte le cose e i rapporti] subiscono un cambiamento decisivo: diventano oggetti di scambio… Il «bene» perde il carattere di idea, di criterio in base al quale possono essere misurati e riconosciuti il bene e il male; diventa un valore che può essere scambiato con altri valori, come la convenienza o il potere. Il detentore dei valori può rifiutare questo scambio, diventare un «idealista» che attribuisce al «bene» un’importanza superiore al proprio stesso tornaconto, ma non per questo il valore sarà riconosciuto meno relativo” (ivi: p. 37).
Per la Arendt questa è l’inevitabile conseguenza anche dell’affermazione delle scienze sociali che spiegano il mondo come prodotto di relazioni tra uomini (si pensi all’Economia politica), non come un “creato” in sé eterno e conoscibile solo tramite la “rivelazione” (che in questo sostituisce l’episteme degli antichi filosofi). La secolarizzazione moderna in definitiva è proprio questo. Ma proprio per questo l’irrisolto problema di tutta la “filosofia dei valori” è stato di trovare un “valore supremo” con cui, per così dire, gerarchizzare tutti gli altri valori, dare un ordine a ciò che di fatto si configura come un pluralismo in cui ciascuno finisce col fare quello che vuole, ma dove, nel contempo, questa libertà trova un vincolo nella libertà degli altri. Quindi, in realtà, i valori sono relativi, non assoluti come le “idee rivelate” del mondo cetuale cristiano premoderno. Ma cosa significa concretamente questa relatività? Parsons ne ha parlato in chiave di “compromesso” tra valori diversi. Ma c’è qualcosa di più radicale che riguarda i valori a cui si attribuisce un significato morale.
La teoria dei sistemi sociali concettualizza tale relativizzazione sostenendo, a mio parere a ragione, che, poiché la società moderna è caratterizzata da una forma di differenziazione per sistemi specializzati in una funzione, questi sistemi (economia, politica, scienza, arte, ecc.) operano in realtà in base ad una “superiore amoralità”. I criteri operativi loro propri sono, cioè, indifferenti a valori morali. Almeno in prima battuta. Così, per esempio, solo l’arte può definire cosa sia arte (cosa sia bello/brutto indipendentemente da qualsiasi concezione di cosa sia morale), solo l’economia può dire cosa sia “economico”, solo la scienza può dire cosa sia “scientifico” e così via. Se, per esempio, si volessero imporre valori morali a una impresa o a un ufficio pubblico senza riguardo alla funzione, l’impresa fallirebbe e l’ufficio creerebbe qualche disfunzione a danno dei cittadini. Ancor peggio le cose andrebbero se una tale imposizione avvenisse per il tramite di una qualche commistione, tanto più se sistematica, tra politica ed economia e/o tra politica e religione.
Questo vale anche per il sindacato quando, nel nome di un qualche valore, ignora le conseguenze che una tale decisione avranno nel tempo proprio sul piano funzionale, per esempio in termini di produttività (economia) o di efficienza/efficacia del servizio (pubblico impiego). In generale è la questione che un secolo fa Max Weber sollevò, contro i “socialisti della cattedra”, contrapponendo una “etica della responsabilità” a un’irresponsabile “etica dell’intenzione” (orientata cioè a “valori materiali”). Solo la prima può infatti farsi carico del rispetto dei valori altrui, così riconoscendo il “relativismo” implicato dal pluralismo, e più in generale il problema delle conseguenze.
Il pluralismo, a sua volta, è un portato dell’individualismo che, sul piano dei rapporti sociali, è una conseguenza della differenziazione funzionale. Cioè del fatto che nella modernità tutti i ruoli sono funzionali e, nel contempo, ciascuna persona ricopre contemporaneamente una pluralità di tali ruoli (si è operaio, marito, amante, padre, militante, membro di una bocciofila, tifoso e così via) che tuttavia restano separati. Ciascun ruolo ha un suo specifico criterio “tecnico” di funzionamento in base al quale sarà valutato (soprattutto dalla parte complementare a quel ruolo, come nel caso medico/paziente o in quello pubblico ufficiale/cittadino). Perciò qui non hanno senso quei richiami alla “comunità” quasi sempre intesa in contrapposizione all’individualismo. Quella di “comunità” è un’idea presa di peso dal feudalesimo “veterocristiano” nell’Ottocento, specie in Germania, proprio per contrastare il supposto “atomismo” della “società civile” (borghese e liberale). All’“atomismo” borghese si contrapponeva l’organicità comunitaria, in cui, come disse un precursore (inconsapevole) del nazismo, ciascuno di sua volontà si uniforma al Tutto. Naturalmente, può farlo perché crede in un certo valore. Ma che succede se altri non lo condividono? E che succede sul piano delle conseguenze ulteriori, per esempio sullo sviluppo economico o sulla qualità dei servizi ai cittadini e, soprattutto, che succede alle libertà? (si veda Berlin, 2009; Dumont, 1993).
La comunità, dunque, è una “realtà” nella quale ogni reale differenziazione funzionale scompare per mettersi al servizio di una qualche gerarchia di valori. Cioè, in pratica, di una qualche ideologia, che, se politica (o religiosa), è oggi l’anticamera del totalitarismo. E la gerarchia di valori presuppone “fini ultimi”. È sorprendete come non si comprendano le implicazioni di questa idea. Si deve comprendere che individualismo, democrazia e pluralismo possono anche essere identificati con valori, ma prima di tutto sono il portato della struttura differenziata per sistemi specializzati in funzioni particolari. Contrapporre “la comunità” alla “società” significa di fatto tornare ad una società “organica” (questo era il programma degli hegeliani, sia di destra che di sinistra, da cui sono poi nati i totalitarismi europei: la “totalità” di Hegel era infatti “organica”, sebbene sviluppasse nel suo stesso seno una “contraddizione” ma “solo” per raggiungere uno stadio “superiore”, che fosse lo “stato etico” o il comunismo).
Se tutto questo è vero, si potrebbe sostenere che i valori sono una “formula di contingenza”: sono simboli che possono riferirsi volta per volta a scopi variabili che a loro volta, nelle società non pluraliste, sono posti come mezzi per i “fini ultimi” (da qui il tentativo di una gerarchizzazione). Questo però fa capire perché di fatto, nei paesi avanzati, le policies, anche quelle dei liberal-socialisti, siano di fatto “pragmatiche” e mutevoli nonostante il continuo riferimento ai valori. Il “fine ultimo” (socialismo o comunismo) è pian piano svanito. Sono con lui svaniti anche i valori? Per il momento ammettiamo di si, dato che è certamente scomparsa l’idea che esistano cose come i “fini ultimi” (almeno in politica). Restano però, quantomeno sul piano retorico, i valori relativi.
3. La fine di una storia
Se è così, come pare inevitabile, nell’attuale contesto globalizzato cosa significa essere riformisti di sinistra? Ovviamente possiamo continuare a usare l’etichetta di liberal-socialismo, ma dobbiamo sapere che con il socialismo, di qualsiasi tipo, non c’è quasi più nulla in comune (se non la storia). Neppure i suoi valori tradizionali. Non perché sia finita, come molti hanno sostenuto sin dai primi anni novanta, ogni distinzione destra/sinistra. Ma perché, crollate le ideologie antisistema (almeno quelle tradizionali), questa distinzione ha ormai solo il significato di una collocazione nello “spazio” politico lineare. Non ha più nulla a che fare, di fatto, con la tradizione storica della stessa socialdemocrazia o del laburismo che comunque opponevano il mondo “borghese” a quello dei lavoratori o del popolo. La storia ha bruciato questa tradizione e, osservando il mondo reale, non sembra esserci un’alternativa preferibile a quella offerta dalle liberal-democrazie avanzate.
Di fatto oggi si pongono peraltro problemi sociali nuovi o, magari, problemi per certi aspetti analoghi ai vecchi, ma in veste del tutto nuova. In ogni caso non ha più senso politico contrapporre borghesia e proletariato e tanto meno élites e popolo. Una più equa redistribuzione si pone in un orizzonte politico-ideologico completamente differente dal passato, quando il socialismo era ancora un’idea forte. Infatti, una più equa redistribuzione è “semplicemente” funzionale a una “buona” riproduzione del sistema nel suo complesso. Perciò il welfare meglio organizzato e in definitiva più equo è prima di tutto il risultato di policies pragmatiche (sebbene possa, com’è accaduto, essere “narrato” in chiave valoriale). Il pragmatismo, infatti, ha questo di peculiare: guarda alle conseguenze delle varie alternative. In un’epoca fortemente ideologica tale termine non a caso significava “privo di ideali” (fuori dal mondo anglosassone) e venne disprezzato. Oggi possiamo guardare al fenomeno con nuove lenti, che non deformino la realtà.
Così, per esempio, abbandonata, giustamente e definitivamente, ogni idea di “socializzazione” (leggi statalizzazione) dei mezzi di produzione, lo stesso valore guida dell’uguaglianza socioeconomica viene in gran parte meno o, quantomeno, deve essere riformulato. Ciò che resta di questa idea morale è lo stesso che vale anche per la destra, cioè quel welfare che tutti, ma proprio tutti, considerano ormai una “conquista di civiltà” irrinunciabile (quantomeno in Europa). Come alternativa al “socialismo reale”, il welfare è stato in realtà possibile e persino necessario per le ragioni individuate dal keynesismo. Con ciò si è aperta una fase storica in cui si è creta una osmosi tra sviluppo capitalistico e welfare a livello dei singoli stati nazionali. Com’è arcinoto, la globalizzazione ha messo in crisi proprio questo nesso di reciproca funzionalità, mentre ha dato il via a nuove disuguaglianze proprio nei paesi più ricchi e sviluppati.
Ma non è di questo che vorrei qui parlare. Giddens, nel lavoro citato, era consapevole che il liberalsocialismo non poteva più porsi in antagonismo col capitalismo, neppure nel senso classico del riformismo socialdemocratico (lui non lo dice, ma è teoricamente sbagliato parlare di “società capitalistica”, perché così si attribuiscono al tutto le qualità di una sua parte). Lui parlava infatti di “politica radicale”, nel senso di una politica che vuole andare alla “radice” dei problemi. Non posso qui discutere di questo testo (v’è una bella prefazione di Salvati all’edizione italiana del 2011 che lo riassume, anche con qualche critica), basti dire che ha poco senso sostenere (giustamente) che occorre mettere da parte l’anticapitalismo e però proporre nel contempo, di fatto, il valore dell’uguaglianza della tradizione socialdemocratica, seppur aggiornata.
Se, infatti, è vero quanto ho detto a proposito del welfare quale conquista di civiltà da tutti difesa, proprio il welfare è da considerare come quel tipo di uguaglianza, anche materiale, compatibile e persino sinergica col capitalismo, se realizzato in modo coerente ed efficiente. Qui, naturalmente, entrano in ballo anche quei limiti che la globalizzazione ha imposto agli stati cui ho accennato poco fa. Questo, tuttavia, è e sarà un problema per tutti, destra e sinistra. Ci si potrà dividere sulle “ricette”, ma non sul problema. La questione che voglio sottolineare è che, oltre questo limite, se vogliamo mantenere l’attuale assetto pluralista e democratico, nonché lo sviluppo per alimentare l’uno e l’altro e lo stesso welfare, il valore dell’uguaglianza socioeconomica per lo più tende a creare danni proprio in quanto, come valore morale, non si cura delle conseguenze ad altri e importanti livelli. Per esempio sui cittadini in quanto non più solo lavoratori, ma pure consumatori e fruitori di servizi. Persino nello stesso welfare, basti pensare alla sanità e all’istruzione. Un altro esempio importante è quello della produttività, da cui dipende la capacità competitiva delle imprese (specie nell’attuale contesto globalizzato). Un sindacato che non si faccia carico (insieme agli imprenditori, ovviamente) di tale questione finisce col danneggiare gli stessi lavoratori e più in generale il paese. Quando si credeva alla “lotta di classe” si sbagliava, ma ciò aveva un senso. Ma oggi che senso ha? Salvo un “salario minimo” garantito, la questione economica centrale oggi è quella della produttività (tanto nel privato che nel pubblico).
Per questo ho in più occasioni sostenuto che oggi occorrerebbe concentrarsi sulle pari opportunità. Non solo quelle di genere, ma più ancora quelle di istruzione e occupazione (estese alla riqualifica di lavoratori di settori in difficoltà). Detto sommariamente, esse infatti si sforzano di annullare (o attenuare considerevolmente) le disuguaglianze alla partenza per l’accesso alle opportunità (di lavoro, carriera ecc.). E sono quindi rivolte a valorizzare talenti, meriti e in generale “qualità” che altrimenti non potrebbero esprimersi proprio per più o meno forti svantaggi iniziali (ereditati dalla famiglia e più in generale dal contesto sociale di appartenenza). Nel contempo, quindi, implicano e sollecitano impegno individuale, responsabilità e lo sanzionano (in base a criteri universalistici). La loro “logica” non è “a tutti lo stesso”, bensì quella di “dare di più a chi ha meno” perché possa arrivare a competere in modo eguale.
Nel campo dell’istruzione, per esempio, la politica della scuola dell’obbligo è ormai largamente insufficiente. Sappiamo infatti che gran parte del successo scolastico dipende da motivazioni e da circostanze favorevoli che in gran parte a loro volta dipendono dall’ambiente familiare e sociale dei ragazzi. Ovvero, che a parte qualche eccezione v’è una sorta di destino sociale nelle carriere scolastiche (e quindi di lavoro). È su queste che occorrerebbe intervenire sistematicamente (con opportuni supporti), invece che far finta di credere che riducendo drasticamente la selezione formale (come oggi si fa) si risolva la selezione di fatto. In un mondo in cui la “conoscenza” diventa sempre più fondamentale per la mobilità intergenerazionale, questo è un tipico caso in cui la vecchia idea di uguaglianza (“a tutti lo stesso”) non funziona più (anche per i cosiddetti ceti medi, soprattutto quelli tradizionali).
In questo senso le stesse politiche di liberalizzazione (un tempo considerate di destra perché “neoliberiste”) possono essere un importante supporto, perché la concorrenza aiuta la mobilità sociale colpendo le mere rendite di posizione, le corporazioni, insomma le varie reti di protezione che rafforzano e lasciano in eredità disuguaglianze ingiustificate. Anche e proprio a sinistra, invece, ci sono forti resistenze alle liberalizzazioni. Si vede “neoliberismo” là dove sono proprio le corporazioni il problema, la causa prima del blocco della mobilità sociale. Questa è un’ambiguità che va sciolta una volta per tutte. Si deve comprendere che l’alternativa alla concorrenza oggi sono proprio le corporazioni, oltre ad ogni altro tipo di monopolio o quasi-monopolio. Queste reti, inoltre, sono un serio ostacolo allo sviluppo, perché rispondono alla competizione internazionale non con nuovi investimenti, bensì chiedendo protezioni politiche. Sono esse che formano una vera, piccola o grande, “casta”. Senza competizione non c’è però crescita e se non c’è crescita economica non solo cresceranno inevitabilmente le diseguaglianze, ma si andrà rapidamente verso il declino (come molti economisti da tempo dicono dell’Italia di oggi).
4. La distinzione destra/sinistra
Insomma, in generale credo si sia arrivati alla fine di una storia, quella aperta da Marx e dai movimenti da lui ispirati. La sua idea di socialismo si è rivelata praticamente un immane fallimento. Marx identificava la modernità col capitalismo, tanto è vero che sottovalutava ampiamente lo stato di diritto, la democrazia, il pluralismo. Bene o male, però, il capitalismo è l’altra faccia della stessa questione. Se vogliamo l’accoppiata di benessere e libertà, dobbiamo tenerci anche il capitalismo. Certo, con tutte le “garanzie”, la sorveglianza e le redistribuzioni del caso (così che, per esempio, si abbia concorrenza invece di monopoli, corporazioni e cose simili). Ma senza, uccidere, per così dire, la gallina dalle uova d’oro, tanto meno nel nome di un supposto valore morale.
Siamo sicuri che, oltre un certo limite, l’uguaglianza economica sia giusta? Siamo sicuri che, oltre un certo limite, la redistribuzione a pioggia, sia giusta? Specie là dove essa è fatta principalmente a debito, e che debito: in Italia il 130% del PIL, quando in Germania, con un welfare non certo inferiore al nostro siamo a poco più del 60%. Perciò dico che anche questo è un tipo di populismo. In passato questo populismo (il “proletariato” era in verità era il popolo, cioè la gran massa dei non proprietari) ha avuto le sue ragioni storiche. Queste ragioni erano però solo una parte della verità. Questo è apparso evidente con il crollo di tutti i “socialismi reali”, ma anche (specie in Italia) con le pessime prestazioni di quasi tutte le nazionalizzazioni e con la constatazione che là dove non v’era e non v’è una salda tradizione liberale (si pensi al Sud America o ai paesi ex comunisti) le politiche che si autodefiniscono egualitarie tendono a degenerare in dittature o in sistemi autoritari.
In verità, sulle disuguaglianze conseguenti alla globalizzazione si fanno discorsi troppo generici: la Germania o l’Inghilterra o la stessa Francia, per non parlare dei paesi scandinavi, non sono l’Italia.
In ogni caso i problemi posti dalla globalizzazione non possono essere veramente affrontati gridando al solito lupo mannaro del capitalismo neoliberista. Il capitalismo pone certo problemi, ma, lo ripeto, esso è solo una delle facce della modernità. Oltretutto quella faccia che, letteralmente, storicamente ha tirato fuori dalla miseria le grandi masse (sulle statistiche secolari si veda Piketty, 2014 e Felice, 2015, specie il grafico di p. 58). La vera sfida riformista sta dunque nell’affrontare la questione tenendo ferma la salvaguardia sia della faccia capitalistica sia delle altre facce (democrazia, pluralismo, libertà), che sono inseparabili (un tempo non si credeva a questo, ma poi si è visto che le dittature portano sempre al sottosviluppo o alla vera miseria).
Sono convinto che la nuova situazione prodotta dalla globalizzazione richieda un massiccio intervento dal lato delle uguaglianze di opportunità (fatto salvo il welfare, ma in modo più selettivo per sviluppare nuovi interventi: è giusto che chi più ha contribuisca maggiormente). Una tale politica non solo sarebbe “giusta” (proprio nel senso della giustizia sociale), ma si legherebbe anche ad un’economia dinamica e assai più equilibrata socialmente (sempre che si facciano gli opportuni investimenti).
Ancora un’osservazione. Perché l’uguaglianza delle opportunità è in linea con la “superiore amoralità” dei sistemi di funzione mentre può al tempo stesso operare ancora come valore? Ma proprio perché è un valore in sé relativo. Essa si preoccupa “solo” di impedire che diseguaglianze alla “partenza” (perciò qui genere, istruzione e forse ora anche etnia sono prioritari) predeterminino gli esiti. Nel contempo essa valorizza meriti, impegno, talenti, indirizza attitudini. Insomma, tiene conto del fatto che gli individui sono proprio tali, cioè diseguali, e che le loro “qualità” si distribuiscono in modo grosso modo casuale. La vera ingiustizia è quella per cui, per ragioni sociali, queste “qualità” restino inespresse o comunque ampiamente limitate. Mentre nel contempo, e sempre per ragioni sociali, altri, che non hanno queste qualità ma godono invece di “garanzie” e protezioni varie, abbiano la strada spianata a posizioni che non dovrebbero occupare (quasi sempre comprese quelle di mero “assistenzialismo”). Tutta gente che inoltre preferirà largamente le rendite al rischio (anche economico) e alla competizione.
Questo valore, quindi, opera prima che si acceda ai sistemi di funzione principali. Anzi, opera in modo che i sistemi di funzione possano attingere proprio al personale che più è loro utile (inclusività). Si potrebbe dire che un tale valore non pregiudica affatto i criteri di buon funzionamento dei sistemi, e che piuttosto li favorisca. È chiaro che oggi questo di per sé non distingua destra e sinistra. C’è solo da aggiungere: meno male! Dobbiamo abituarci al fatto che col venire meno dell’utopia socialista (ma rammentando sempre quella fascista) le differenze tra destra e sinistra saranno solo una questione di accenti, più forti alle rispettive estreme, più deboli verso i rispettivi centri. Lo si vede bene, oggi, non solo sulla questione del welfare ma anche, per esempio, sulla questione di genere. La sinistra sarà più esplicita e più battagliera, la destra più moderata e gradualista. Analogamente accadrà in altri campi. Sarà più una questione di sensibilità e di tradizione che non una vera questione identitaria (come invece è stato nel Novecento).
Questo forse aiuterà a rendere almeno marginale un’altra anomalia della politica, specie italiana, ossia la spiccata tendenza a fare della divisione destra/sinistra una questione dalla forte valenza morale. Da noi ciò è stato evidente fino a “tangentopoli”, quando specie i comunisti vantavano una sorta di “evidente” superiorità morale sui partiti dell’area di governo. Questa sorta di frattura morale (che va fatta risalile almeno al Berlinguer della “questione morale”) è stata poi rinverdita da Berlusconi per le note vicende, ma soprattutto per aver nuovamente puntato esplicitamente sull’anticomunismo in chiave populista (l’uomo del “fare” contro il “bla bla” dei partiti ecc.). Militanti e opinione pubblica di sinistra, peraltro, caddero nella trappola sviluppando un forte moralismo nella forma di “anti-berlusconismo”. Di fatto, così, nella politica italiana si è riproposta, in veste apparentemente diversa, la vecchia frattura morale dove ciascuna parte interpretava se stessa come il “bene” e l’altra come il “male”.
Non c’è quindi da meravigliarsi se oggi, seppur nelle forme apparentemente aggiornate dei populismi espliciti, una tale frattura si ripropone ancora più in grande (dalla parte leghista nella veste delle “élites contro il popolo”, dalla parte dei pentastellati nella veste degli “onesti contro i disonesti”). Questo, tra l’altro, è uno dei motivi (insieme a quello dell’assetto costituzionale che ostacola la formazione di governi realmente decidenti e alternativi) per cui il sistema politico italiano continua a dar vita a una democrazia incompiuta, senza vera alternanza di governo e perciò realmente responsabile di fronte agli elettori ma al tempo stesso razionale e consapevole delle conseguenze generali di ogni scelta.
5. Il populismo
Prima di tornare brevemente ai valori, vorrei riprendere la questione propriamente politica della formazione di un partito di sinistra realmente riformista e, nel contempo, all’altezza dei problemi che il XXI secolo già propone e sempre più proporrà. Innanzitutto v’è una questione per così dire di memoria: è decisivo capire bene da “dove” veniamo. Ossia, a mio parere, dobbiamo essere consapevoli che, nonostante tutte le formidabili novità di questo ventennio, per certi aspetti in realtà siamo ancora figli (noi di sinistra, anche come elettorato) del XIX secolo e che, dunque, non ci è ancora chiaro cosa significhi veramente essere oggi riformisti (di sinistra; anche la destra, infatti, dovrebbe essere riformista, seppur in modo un po’ diverso).
Un segno evidente di questa eredità non superata è il continuo e diffuso, ma non per questo meno generico, riferimento alle cresciute disuguaglianze provocate dalla globalizzazione. Che è il nome con cui oggi, in realtà, si parla di capitalismo, non accorgendosi o sottovalutando che in verità globali sono ormai cose come la scienza, la tecnologia, l’arte, i mass media – specie cinema, letteratura e tv – e, di conseguenza, molti aspetti culturali. Tendiamo a sottovalutare questa globalità forse perché, nonostante questo contesto mondializzato, sopravvivono i vecchi stati nazionali formatisi nell’Ottocento. Ma sopravvive anche la vecchia idea, assai dura a morire, che la società moderna in realtà si riduca al capitalismo, che ne sarebbe “l’essenza” (ora globale). Il successo dei vari populismi è infatti quasi sempre “spiegato” (specie dalla “sinistra sinistra”) con tale riferimento alle disuguaglianze (socioeconomiche) e al fatto che la loro crescita sarebbe dovuta anche (se non principalmente) all’allontanamento della sinistra di governo dal popolo (in Italia, si dice, questo è accaduto con la riforma delle pensioni e con il Jobs Act e, più in generale, perché si sarebbero abbandonate le periferie per sedere nei salotti buoni delle élites).
Ovviamente, qui non si vuol negare che un’importante quota di voto popolare si sia spostata a seguito di riforme come quelle citate e di problemi sociali ed economici originati dalla enormemente accresciuta competizione internazionale. Poiché questo è un dato che riguarda tutto l’Occidente sviluppato, c’è del vero nella tesi che guarda alla globalizzazione. Ma come tale questa tesi è troppo sommaria e di per sé non spiega il successo dei neopopulisti, che d’altra parte è assai diverso da caso a caso (anche per quanto riguarda Trump si dimentica che il suo successo è dipeso anche dal sistema elettorale, visto che la sua avversaria ha preso oltre due milioni di voti in più; altrove, come in Francia, il sistema elettorale li ha invece portati alla sconfitta proprio nel nome della République). La pretesa che la soluzione dei problemi consista in una politica “sovranista” è, lo sappiamo, del tutto irrazionale, come più in generale sono irrazionali le tesi populiste. Che la demagogia possa oggi tornare a mettere a repentaglio la democrazia ha spinto alcuni (come Jason Brennan) a sostenere che la tradizionale liberal-democrazia dovrebbe essere riformata nel senso di una “epistemocrazia” (cariche politiche pubbliche solo a chi ha documentati attestati di conoscenza e competenza). Il suggerimento non è da buttare, ma è questione che qui non vorrei toccare (si veda Addario, 2018c).
Vorrei invece chiedermi: perché sino alla crisi scoppiata nel 2008 la “vecchia” democrazia rappresentativa che ruotava intorno a partiti tradizionali (anche solo di natura eminentemente elettorale, come negli USA) tutto sommato ha funzionato (anche se in Italia niente affatto bene, a mio parere), mentre da quella data hanno iniziato a diffondersi populismi con un crescendo di successo? Perché tesi populiste e persino chiaramente di destra nostalgica hanno avuto un successo crescente, mentre prima al più avevano un impatto circoscritto e privo di conseguenze significative? O, in altri termini, perché tesi e parole d’ordine irrazionali e demagogiche, che parlano intenzionalmente alla pancia della gente, hanno avuto questa presa?
La mia tesi, detta ora sinteticamente (ma si veda Addario, 2018b), è che v’era del populismo, seppur di vecchio stampo, nella cultura politica della sinistra, e in Italia (per ragioni che qui non posso discutere, ma si veda il pezzo di cui sopra) ben più che altrove e con effetti assai più radicati e diffusi, specie nel settore pubblico. Questo anche perché qui da noi pure i conservatori in realtà, non essendo liberali, hanno praticato una politica analoga, anche se in parte diversamente motivata. Cosicché qui gli effetti della crescente impotenza dello stato nazionale a fronteggiare i problemi sollevati dalla globalizzazione hanno avuto un impatto più forte che altrove in Europa Occidentale.
A questo si aggiunga che da quella data i governi che si sono succeduti non hanno mai avuto la forza (per ragioni discusse nel lavoro citato sopra) per realizzare policies realmente efficaci. Solo con la riforma Fornero e il governo Renzi si sono iniziate a fare riforme vere, ma queste hanno suscitato assai più dissensi che consensi. Questo, credo, anche perché nella stessa area di governo è mancata la consapevolezza dei profondi danni che la vecchia cultura politica aveva prodotto proprio tra il suo stesso elettorato (oltre che in una parte rilevante del suo ceto politico).
Insomma, pur necessarie quelle riforme hanno messo in luce la presenza di un’ampia discrasia tra ciò che il governo diceva che bisognasse fare per far ripartire il paese e ciò che invece il “popolo” (in una sua ampia maggioranza) era abituato ad aspettarsi dalla classe politica. Si pensava che le “riforme” producessero consenso, dato che “razionalmente” rappresentavano atti rivolti a creare maggiore efficienza/efficacia (per esempio, sul mercato del lavoro, nella P. A., nella scuola). Hanno invece prodotto dissenso e proprio perché avevano quell’indirizzo riformista (o almeno tentavano) invece che, secondo una cultura di circa settant’anni, redistribuire a pioggia, assegnare nuovi privilegi a gruppi, corporazioni, clientele e così via. Nessuno ha tuttavia spiegato che i vincoli di bilancio non erano e non sono un sopruso dell’Europa, ma una necessità imposta da un assurdo (perché più che ventennale e troppo elevato) debito pubblico nel contesto di un’economia bloccata.
Questo, però, non è accaduto per caso, ma perché era un portato della cultura politica della vecchia sinistra, comunista e postcomunista (oltre che dei cosiddetti moderati, qui in realtà ex democristiani). Seppur in una misura inferiore, quella cultura non era peraltro del tutto estranea ai tradizionali partiti socialdemocratici. Anche nel socialismo europeo almeno sino ai primi anni novanta era alquanto presente l’idea dell’uguaglianza socio-economica come valore. Che la questione da affrontare sia questa è la ragione per cui tutta la socialdemocrazia (in Europa) è oggi in grave difficoltà.
Era in fondo il problema di Giddens nel lavoro citato. E infatti parlava di “terza via”. Una “terza via” è però irreale, se con ciò si intende un qualche tipo di “società altra”. Scartato (per le note vicende storiche) il comunismo (o la rivoluzione), “terza via” rispetto a che cosa? Al capitalismo? Credo sia questa l’idea, sebbene oggi non chiaramente espressa, che sta ancora alla base del continuo richiamo alle disuguaglianze. Dicevo: non chiaramente espressa. Ovviamente, è tale non per caso, dato che la storia ha già risposto con i fatti a quella che era stata pensata come l’alternativa, cioè il socialismo (o comunismo). Manca dunque l’alternativa (anche teorica), ma il riferimento generico alle disuguaglianze crescenti (quali? di quanto? dove? e perché?) consente il riproporsi di un’implicita critica di vecchio stampo al capitalismo. In questo permane (anche in chi non si dichiara tale) quel tanto che basta di marxismo. Permane, cioè, una lettura della società alla Marx, centrata appunto in chiave “economica” che perciò trascura del tutto (come faceva Marx, che per questo criticava l’uguaglianza “solo formale” del diritto, della politica ecc.) che il capitalismo è, semplicemente, l’altra faccia della democrazia, della costituzione e dello stato di diritto, del pluralismo, delle libertà. E che il benessere diffuso è proprio la conseguenza tanto dell’uno quanto degli altri. In una parola, della differenziazione per sistemi funzionali e dunque dell’individualismo (diversi autori si sono chiesti sul piano storico-comparato il perché di questo “successo”: si veda la risposta di North e Al., 2012 e Acemoglu e Robinson, 2012, che pongono l’accento sulla comparsa, con la modernità, di “istituzioni inclusive” di contro a “istituzioni estrattive” che hanno caratterizzato e caratterizzano altri tipi storici di società).
Per questo sostengo che, falsata dai fatti la tesi marxista del socialismo come vera emancipazione dell’umanità, il generico richiamo al valore dell’uguaglianza economica diventa populista. Lo diventa perché proprio in quanto è posto come fine morale nega tutto ciò che, ispirato da questo valore, produrrà conseguenze negative sia sullo sviluppo sia sul normale funzionamento della società (per fare degli esempi apparentemente secondari, ma che senso ha che nel nome dei “diritti” i vigili urbani siano scomparsi dalle strade delle città o che i commissariati di zona siano chiusi la domenica: forse il senso di insicurezza dei cittadini, specie in certi quartieri, deriva anche da questo senso di abbandono da parte di chi, per mestiere, dovrebbe vigilare). Fallita l’ipotesi marxista, questa cultura, che crede che i “diritti dei lavoratori” siano di per se stessi sempre un bene anche quando sono interpretati con forme che producono conseguenze negative che si cumulano e si diffondono, è populismo anche se non sa di esserlo. Il rinvio convinto alla sua dimensione morale impedisce di vederlo. Anche se si assiste all’incredibile scena in cui la CGIL aspetta che sia proprio Salvini ad abolire la legge Fornero (così implicitamente viene fuori che il suo “uomo nero” era in realtà Renzi, non Salvini, che però Veltroni ha recentemente bollato come protofascista).
6. La questione dell’uguaglianza
Che anche la socialdemocrazia europea non abbia in realtà veramente del tutto superato (o affrontato di petto) il lascito, per così dire, del socialismo (nonostante il saldo ancoraggio alla democrazia) è dimostrato, oltre che dal caso laburista (citato in precedenza), riaperto, dopo la parentesi di Blair, dall’anticapitalismo di Corbyn. Ma pure dal crollo del Partito socialista francese e dalle gravi difficoltà della SPD in Germania e persino in Svezia.
Il caso tedesco va tenuto particolarmente presente per l’importante ruolo avuto storicamente nel socialismo europeo almeno dai tempi della famosissima contrapposizione tra Kautsky e Lenin, che in definitiva fu alla base della divisione tra socialisti e comunisti e che portò questi ultimi a uno sprezzante giudizio verso il socialismo “riformista”. Ciò, va rammentato, nonostante il programma della SPD si richiamasse esplicitamente al marxismo. Sotto questo profilo, infatti, la “svolta” avvenne solo nel famoso congresso di Bad Godesberg (1959) in cui la SPD abbandonò ufficialmente il marxismo, si dichiarò esplicitamente favorevole “al libero mercato, dove domina la concorrenza” e si propose non più come “partito dei lavoratori” ma come “partito del popolo”. Il socialismo democratico era proposto come un obiettivo possibile, non come il risultato necessario di un processo storico (come in Marx) ed era indicato nella prospettiva di una sorta di “neoumanesimo”, radicato nell’etica cristiana senza però proporsi come una religione (Winkler, 2004, II: 226 e ss.). La proprietà collettiva era indicata come forma legittima di controllo pubblico, specie quale forma di protezione degli individui dallo strapotere dei grandi gruppi privati. Ma non era posta come via prioritaria. Specie in politica estera restava peraltro ancora l’impressione che essa cercasse una sorta di “terza via”. Cosa che fu però superata (almeno così sembrò) l’anno seguente pubblicamente in parlamento. Che la socialdemocrazia tedesca si schierasse del tutto a favore dell’Occidente venne inoltre autorevolmente confermato dalla leadership di Willy Brandt (allora borgomastro di Berlino).
Se tuttavia prescindiamo dal particolare contesto dell’epoca (la spaccatura tra Occidente e Oriente, il muro di Berlino, l’imperioso sviluppo socioeconomico, la grande espansione del welfare) si ripropone la domanda (oggi ben più evidente): cosa c’entra il “socialismo”, pur umanitario e radicato nell’etica cristiana, con il capitalismo e l’individualismo (non più solo “proprietario” del Settecento e dell’Ottocento)? Certo, allora erano ancora vive e influenti le tesi “critiche” della scuola di Francoforte, rinverdite specialmente da Habermas. Diciamo che, sebbene la SPD abbia sempre respinto le tesi più radicali (specie nel corso del movimento del ‘68), è chiaro che quel socialismo umanitario aveva in mente, quantomeno, una maggiore uguaglianza socioeconomica.
Se tuttavia teniamo conto di quanto abbiamo detto a proposito della posizione della destra democratica sul welfare, la domanda si ripropone: cosa c’entra il “socialismo” con il welfare? La mia idea è: in realtà ben poco. A guardar bene l’uguaglianza socialista c’entra poco, dato che la si richiede almeno dai tempi della rivoluzione inglese degli anni quaranta del Seicento e si è diffusa per l’Europa continentale con la rivoluzione francese (Addario, 2018a). Le cose si sono ingarbugliate nel corso dell’Ottocento, specie con la rivoluzione industriale “dall’alto” e l’emergere dei primi movimenti socialisti (utopisti), che probabilmente erano l’espressione del processo di estensione dell’uguaglianza liberale alla totalità dei cittadini (democrazia). Questa spinta riprendeva più antichi temi religiosi/mitici e li calava nella realtà socioeconomica di allora, in cui la distanza tra i pochi proprietari e i molti nullatenenti (molti dei quali erano diventati proletari industriali) era notevole e appariscente. Andrebbe tuttavia ricordato che originariamente l’idea di uguaglianza degli individui sorge proprio sul terreno politico e civile.
Per la precisione sorge sul terreno delle guerre di religione verso la fine del Cinquecento come diritto soggettivo a uccidere il Monarca tiranno. Idea che poi fu alla base della rivoluzione inglese del Seicento e che ritroviamo (opportunamente sistematizzata) nella teoria di J. Locke, per poi diffondersi soprattutto in Francia e da qui in tutta Europa (innanzitutto con l’Illuminismo). Storicamente questa libertà politica era contro il Monarca assolutista e socialmente limitata, innanzitutto per ragioni storico-sociali. Era tuttavia posta in termini universalistici e perciò (lo si vede concretamente già nella rivoluzione inglese), da un lato, era destinata a svilupparsi come democrazia politica (pur tramite il conflitto), e, dall’altro lato, implicava altri diritti (di associazione, di istruzione, di opinione ecc.). L’idea di uguaglianza dalla politica si estende così anche alla dimensione socioeconomica (da Fourier a Owen). E qui arriva Marx e le cose prendono una piega particolare. Da questo momento tutti quei sommovimenti diventano in qualche modo marxisti o sono influenzati dal marxismo.
In realtà, tuttavia, il welfare a mio avviso si collega soprattutto con quella originaria idea di uguaglianza e in tal senso esso è connaturato con la modernità (in quanto tipo storico particolare di società), perché è stata la modernità che impose l’idea della uguaglianza (“per natura”) degli uomini con la trasformazione della società di ceto in società individualistica. È qui che sorsero e si imposero i diritti soggettivi (personali, civili, politici e infine sociali) in Inghilterra sin dal XVII secolo e pur nelle differenze di classe (si pensi ai “Livellatori” e alle varie “sette” e movimenti assai attivi sino alla “restaurazione” Stuart del 1660: una radicata eredità senza la quale non si spiega la “Glorious Revolution” del 1689 che inaugura il parlamentarismo moderno). Che poi il welfare sia stato utile alla socialdemocrazia anche per contrastare ideologicamente e politicamente il comunismo è altra questione (molto più contingente di quanto sovente si creda).
Cosa sarebbero stati questi movimenti utopistici senza Marx non possiamo saperlo. Forse una sinistra liberaldemocratica (e utilitarista), alla J. S. Mill. In ogni caso da quel momento il “tarlo marxista” si insinuò dappertutto. Persino la destra liberale ne è stata condizionata (per non parlare dei fascisti). Oggi, però, che l’utopia marxista ha tragicamente fatto il suo tempo, la questione dell’uguaglianza socioeconomica andrebbe affrontata in termini nuovi. Ossia tenendo conto dei caratteri strutturali propri della società moderna.
7. Ciò che la politica può fare e non fare
Ora possiamo tornare ai valori. Se riprendiamo l’idea di Parsons di considerare i valori degli “stati del mondo desiderabili” invece che dei “fini ultimi” (una concezione, questa, di origine religiosa, secondo una tradizione che la filosofia, specie hegeliana, riprende dalla teologia), possiamo vedere più facilmente perché in una società strutturata per sistemi funzionali essi diventino relativi. Per semplicità diciamo che lo stesso Parsons mostra come l’interdipendenza per sistemi funzionali non solo configuri di fatto una pluralità di valori non gerarchizzabili, ma oltretutto li condizioni rispetto a ciò che la società stessa (i vari sistemi nel loro rapporto) determina come fattualmente possibile per la loro reciproca “integrazione”. Da un lato si sviluppano valori non morali, dall’altro lato quelli morali sono plurali e limitati da ciò che i vari sistemi ammettono per la propria autoriproduzione e sviluppo. Perciò, come accennato, Parsons parla di “compromesso” tra valori, ma in ogni caso si deve trattare di compromessi funzionali!
La teoria dei sistemi sociali (Luhmann, 2012-13) ha tuttavia mostrato qualcosa di ancora più forte. Ossia, come già accennato, che i sistemi di funzione, in realtà, operano sulla base di una “superiore amoralità”. Non solo ciascun sistema opera guidato da un criterio operativo proprio (per esempio: profitto/non profitto; potere/non potere; vero/falso; ragione/torto ecc.) e indifferente alla morale (qualsiasi), ma le stesse “etiche professionali” riguardano quelle “zone grigie”, non coperte chiaramente dalla legge, che concerno proprio l’applicazione pratica (caso per caso) di quegli stessi criteri professionali che ciascun sistema richiede. Per esempio, l’erronea rilevazione di dati per negligenza, nel caso di un esperimento scientifico, non costituisce di per sé né un reato né un’infrazione morale, ma scredita la reputazione scientifica di un ricercatore. I codici professionali sono appunto deontologici proprio nel senso che sono “convenzioni” riguardo a “standards” di comportamento “corretti” secondo criteri propri del sistema di riferimento (medici, scientifici, legali, ma anche economici, politici e così via). Criteri, dunque, che il singolo titolare di un ruolo è vincolato a rispettare come fosse un “dovere”. Queste deontologie vorrebbero limitare quei possibili “fallimenti” dei comportamenti di ruolo che dipendono da atteggiamenti dei singoli attori, atteggiamenti e comportamenti assai poco “visibili” dalle controparti (trascuratezze, negligenze, ma persino cattive competenze). Ed è questo il senso dell’“etica deontologica”: una pressione che agisca dall’interno (la coscienza) sui singoli perché si uniformino alle aspettative sociali, ma sapendo che la “professione” sorveglia e nel caso interviene con sanzioni negative. Non per caso inizialmente queste “etiche” sorgono particolarmente in quelle professioni (spesso tradizionali) in cui non v’è un supervisore gerarchico e molto quindi dipende dall’auto-attivazione del singolo soggetto (che comunque deve stare attento alla reputazione).
Sul piano sociale generale, tuttavia, non si tratta soltanto di garantire il rispetto delle aspettative complementari connesse al ruolo, ossia che sia realizzato proprio ciò che è atteso secondo uno standard sociale. Si tratta ancora più di far sì che il sistema coinvolto realizzi la funzione specifica che lo caratterizza e che la società richiede. In altre parole, che nei suoi confronti si produca una fiducia diffusa (detta confidenza), nonostante singoli fallimenti (sempre possibili). La società, ovviamente, è interessata alle prestazioni dei sistemi. Ma la funzione può essere realizzata in molti modi. Ciò che fa sì che una certa funzione sia svolta in base a certi modi (tipi standardizzati) particolari e non ad altri (sempre possibili) è che gli altri sistemi della società (quelli che utilizzano le prestazioni) ne traggano benefici riconosciuti e comparativamente superiori ad altri tipi storicamente noti (si pensi alla medicina o alla scienza moderne rispetto a quelle delle società tradizionali). Questo “sviluppo” è di tipo reciprocamente adattivo, ma in via sistematica e generalizzata è peculiare della struttura sociale differenziata per sistemi di funzione, che proprio per questo è straordinariamente dinamica (anche nel breve periodo) e al tempo stesso inclusiva (in linea di principio tutti possono infatti accedere ai sistemi: perciò Douglas North e colleghi parlano di “istituzioni inclusive”).
Fu questa dinamicità che nella fase di transizione dalla società cetuale veteroeuropea alla modernità spinse l’Illuminismo a esaltare la ragione umanain quanto tale. Il modello era quello delle scienze naturali che veniva contrapposto alle credenze derivanti dal pensiero magico e delle religioni, e più in generale dall’ignoranza. Questa esaltazione per la ragione (si pensi all’idea di Kant di “ragion pura”) dalla filosofia fu ovviamente portata in politica e ben presto, specie a partire dalla Francia rivoluzionaria, portò alla convinzione che l’uomo, particolarmente con la politica, potesse progettare la società ideale (morale). Oggi sappiamo che questa idea politica (a iniziare dai Giacobini) è stata tragicamente smentita dalla storia. L’impressione, tuttavia, è che in realtà si fatichi ancora a trarne le dovute conclusioni generali. E cioè che gli uomini possono porsi scopi realizzabili e perduranti – in quanto valori, specie se morali – soltanto se questi sono “prefigurati” dalla struttura sociale in cui vivono, o siano o si rendano quantomeno compatibili con la struttura sociale data.
Quando i fini posti come valori (specie se assoluti o fini ultimi) vogliono andare “oltre” quanto la struttura sociale ammette, come minimo si ha un regresso, spesso accompagnato da sangue e dittatura. Secondo alcuni (Moore, 2002; Löwith, 1998; Pizzorno, 1994) in Occidente questa tendenza utopica deriverebbe dal fatto che la politica, specie in certi contesti di paesi “second comers”, ha storicamente assunto i propri scopi come “fini ultimi” su modello del monoteismo cristiano militante e imperiale. Sul piano del pensiero elevato, il medium di questa trasmigrazione dalla prospettiva teologica a quella politica è stata la filosofia (cfr. Kantorowicz, 1989, in cui si trova una genealogia della “teologia politica” che risale al tardo medioevo). Sul continente europeo specie a partire dalla fine del settecento, con il romanticismo, lo storicismo e le varie forme di hegelismo (compreso il marxismo) e di esistenzialismo. Ancora oggi in Italia è piuttosto diffusa, anche tra gli intellettuali, l’idea che la politica possa (o dovrebbe), mediante l’intenzione, fare cose che in realtà non è in grado di fare, a meno di disastri e tragedie (soprattutto se pensa di poter progettare una società ideale).
A questo punto si può forse iniziare a comprendere perché l’uguaglianza socioeconomica intesa come un valore (morale) sia incompatibile con i ruoli funzionali e con il pluralismo. Soprattutto nel secolo attuale della globalizzazione spinta, dove questioni di competitività (e quindi di produttività e più in generale di funzionalità allo sviluppo) diventano decisive per la stessa sopravvivenza del welfare (oltre che dell’occupazione). Paradossalmente, non tener conto di questo punto decisivo pone a sua volta questioni di giustizia sociale, perché la crisi del welfare (e più in generale dello stato) colpisce proprio i settori più deboli e precari della società. Come ho accennato poco sopra, posto un livello minimo di vita dignitosa che dovrebbe essere garantito a tutti, l’unica forma di egualitarismo che dovrebbe essere perseguita sistematicamente è quella delle pari opportunità. La critica al capitalismo, così come alla politica, deve essere funzionale altrimenti… si fa solo del moralismo con danni più o meno profondi. E in ogni caso questa critica deve essere consapevole dei limiti della politica (e più in generale della razionalità umana, così come del fatto che i processi sociali hanno una dinamica propria che per lo più è fuori da un vero controllo degli attori: “effetti emergenti” e quindi non previsti sono ovunque in agguato!).
8. Liberalismo e pluralismo
Proviamo a tirare le somme di quanto detto in precedenza. Alcuni valori, quelli propri della semantica moderna e coerenti con la sua struttura basilare (la forma della differenziazione per sistemi funzionali), sono simboli generali per la comunicazione, specie quella politica. La loro funzione è di orientare i comportamenti e la stessa comunicazione coerentemente con la dimensione strutturale, ma tenendo conto delle necessità e delle possibilità imposte/offerte dalla contingenza del momento e dei bisogni (funzionali) del sistema sociale complessivo. Perciò sono “formule di contingenza”, ossia simboli astratti sotto i quali diviene possibile far rientrare volta per volta le decisioni più diverse, per esempio in quanto “mezzi” che, nella contingenza o nella “fase” del momento, sono indicati andare nella direzione di questo o quel valore particolare. Si pensi a tutto quello che nella storia di un paese è stato indicato volta per volta come scelta che ha perseguito l’interesse nazionale. La libertà come valore, per fare un altro esempio importante, ha avuto una molteplicità di declinazioni e di “soluzioni” concrete. Proprio per questo può accadere che queste formule di contingenza vengano elaborate in versioni “antisistema”, e quindi trasformate in valori assoluti, particolarmente in quei paesi in cui la modernità sia stata molto contrastata (quelli che io chiamo paesi “second comers”, caratterizzati da “rivoluzioni dall’alto”).
Va peraltro osservato un punto importante: il liberalismo pone un limite preciso alla pretesa del valore. Questo limite è la non prevaricazione dell’altro, particolarmente quando il valore perseguito rappresenti (politicamente) una maggioranza. Per questo le costituzioni moderne impongono equilibri tra poteri diversi e stabiliscono norme a protezione di minoranze. E per la stessa ragione, come disse uno studioso di diritto, le costituzioni “legano le mani al popolo” stesso giacché senza mani legate da una legge superiore il popolo non ha in realtà vere mani (tutti i dittatori moderni hanno sempre reclamato e spesso ottenuto una qualche legittimazione plebiscitaria). Qui dunque emerge chiaramente quella relativizzazione dei valori di cui parlava la Arendt e che concretamente si presenta come pluralismo. Il pluralismo stesso può essere inteso come valore, ma anch’esso è in definitiva relativo giacché è formale: accetta tutti i valori, ma non può ammettere quei valori che si prefiggano di sopprimerlo, specie se questi si attivano politicamente.
9. Raccontare al paese la verità
Oggi probabilmente neppure la tradizionale distinzione tra conservatori e progressisti ha ancora senso. Forse i nuovi populismi sono (sul piano internazionale) anche una conseguenza del progressivo sfumare di questa distinzione tipica del XX secolo, specie dopo la seconda metà. Se è vera l’ipotesi che con il nuovo millennio si è definitivamente conclusa una storia iniziata nel XIX secolo, i cambiamenti in corso credo siano assai poco riconoscibili veramente. Cosa si affermerà durevolmente e in che direzione credo non lo possa sapere nessuno. Anche i cosiddetti neopopulisti non è detto che costituiscano un fenomeno duraturo. Due previsioni però possiamo farle, perché riguardano un fenomeno già da tempo sotto i nostri occhi, e cioè l’enormemente accresciuta competizione indotta dalla globalizzazione, che va di pari passo con la scarsa presa che i tradizionali stati nazionali (specie di piccola e media dimensione) hanno su tali processi.
Tenuto presente questo dato, la prima previsione è che, in tali circostanze, la competizione potrà essere sostenuta solo da quanti avranno rimosso i vari ostacoli (privati e pubblici) alla costante crescita di produttività, possibilmente sostituendoli con tutto ciò che possa invece sostenere questa crescita (in chiave comparata, ovviamente, e nel quadro dell’Europa).
La seconda è che, se la prima previsione è vera, allora il welfare che conosciamo sarà destinato a cambiare profondamente. Da un lato, esso dovrà essere uno di quei fattori che contribuiscono alla crescita della produttività, cosa che oggi fa in assai scarsa misura e comunque in modo non più sufficiente (vedi istruzione). In certi ambiti esso è stato persino un fattore deprimente della produttività (si pensi all’uso sistematico dei prepensionamenti per risolvere crisi industriali fatto in Italia, cosa che ha indotto tutti – sindacati, lavoratori, imprenditori e politici – a disinteressarsi delle ragioni profonde di tali crisi). Qui si inserisce peraltro il tema delle pari opportunità, che a mio avviso dovrebbe diventare centrale nel welfare del futuro. Dall’altro lato, il welfare dovrà sempre più concentrarsi sulla questione del governo del mercato del lavoro, sia con riguardo all’ingresso e a tutte le nuove forme di lavoro, a una nuova ed efficiente gestione delle crisi industriali, sia pensando all’impatto che le nuove tecnologie dell’automazione e della comunicazione digitale avranno sull’occupazione.
In tutto questo, tuttavia, si dovrà tenere conto di un presupposto fondamentale. La democrazia, specie quelle sue forme in cui si sono radicati storicamente dei populismi antisistema (tanto di sinistra che di destra) e il cui elettorato è perciò nel complesso privo di anticorpi liberali, ha la spiccata tendenza a suscitare aspettative crescenti che diventano senso comune, per lo più nella forma di “diritti” senza riguardo a meriti, a verifiche, a conseguenze per terzi e per il paese. Questa cultura dei “diritti senza se e senza ma” si copre del manto della democrazia, quasi sempre nella pratica di una consociazione diffusa, minuta. Alcuni hanno sostenuto che sia la democrazia come tale che promette in via universale la realizzazione delle aspirazioni soggettive. Questo può per certi aspetti essere vero. Tuttavia, nella tradizione liberale anglosassone questa promessa è stata associata fortemente (si pensi all’etica puritana) all’idea di merito e di responsabilità individuale. Anche per questo ho sottolineato la differenza tra paesi “first comers” e “second comers”, sovente coincidente con la differenza tra paesi protestanti e cattolici. L’area tedesca luterana è un caso a parte: qui, con qualche rara eccezione, le congregazioni sono state storicamente sottomesse al potere temporale e fortemente antimoderne (nonché antisemite sin dai tempi di Lutero) sino alle seconda guerra mondiale.
Ad ogni modo, quella italiana è stata una consociazione che nel nome di un preteso consenso popolare ha alternato richieste di spartizioni a pioggia con veti incrociati. È stata inoltre a lungo caratterizzata da tematiche antisistema di diversa origine (sia socialista-comunista che cattolica, nonché fascista). Anche per questo quasi tutte le riforme tentate dai primi anni novanta sono fallite o sono state di fatto svuotate e, da quando l’entità del debito pubblico ha bloccato ulteriori spartizioni, ormai prevalgono i veti incrociati (con la breve parentesi del governo Renzi-Gentiloni, che non a caso ha perso le elezioni a tutto vantaggio di populismi apparentemente opposti).
Questa prolungata “anomalia italiana” (Castronovo, 2018) affonda le sue radici nel tipo di legittimazione che, sul piano sociale diffuso, aveva la I Repubblica. La stessa costituzione del 1946, sia per assetto complessivo dello stato e della legge elettorale, perfettamente proporzionale, sia per alcuni principi, aveva assai poco di liberale (Maranini, 1967). Essa era espressione del prevalere di due culture politiche allora estranee al liberalismo, se non persino avversarie. Quella socialista-comunista, esplicitamente marxista; e quella cattolica (a parte una piccola minoranza, comunque subalterna alla dottrina sociale della Chiesa). Per il loro radicamento, nel quadro di quel “multipartitismo polarizzato” di cui ha parlato Sartori, queste fedi politiche divennero due “subculture” assai radicate.
Seppur ciascuna a modo proprio, queste subculture interpretavano la politica nel senso di una “democrazia partecipata” a tutti i livelli, non solo quello propriamente politico del parlamento e del governo (centrale e locale). Con l’esplosione dei movimenti del ‘68 questa idea non solo si radicalizzò, ma influenzò la legislazione e la pratica rivendicativa ovunque, tanto in fabbrica (Statuto dei lavoratori) quanto nella scuola, nell’università, nella pubblica amministrazione. Qui quel consociativismo spartitorio cui ho accennato era appunto “coperto” anche da questa ideologia dei diritti e della partecipazione. Questo, si badi bene, mentre al livello pubblico avvampava comunque la guerra ideologica tra comunisti e anticomunisti.
Si può ben dire che in tutto questo vi fosse già molto populismo: poiché diritti e partecipazione erano del tutto avulsi (proprio in linea di principio) da meriti e responsabilità individuali e collettive, nonché rispetto a vincoli di qualsiasi tipo (per esempio, con riguardo ai probabili effetti sullo sviluppo economico, sul bilancio dello stato, sul funzionamento della pubblica amministrazione e così via). Di fatto si è radicata l’idea che tutto fosse dovuto indipendentemente dai “costi”, quali che fossero. Si pensi al salario come “variabile indipendente” propugnato tra i Settanta e gli Ottanta (un anticipo “operaista” del reddito di cittadinanza). Perciò divenne subito spartitorio in una sorta di rincorsa reciproca al consenso, mentre ufficialmente regnava la guerra ideologica tra i due schieramenti: ciascuna parte “riempiva” con i propri contenuti specifici diritti e partecipazione, senza riguardo alcuno per le conseguenze. In questo v’era un accordo sostanziale tra i partiti di governo e l’opposizione.
Questa sorta di “sostanza” del consociativismo irresponsabile la ritroviamo nel populismo di oggi, quando, con uno sviluppo economico bloccato da più di un decennio e con la crisi del bilancio dello stato, la spartizione a pioggia non può più continuare, mentre le pretese si sono accresciute anche in ragione della prolungata crisi. Il recente governo Di Maio-Salvini fa infatti un “contratto” che altro non è che una mera “spartizione” (sulla carta): “un tanto a me, un tanto a te, così andiamo d’accordo anche se sino a ieri ci davamo i cazzotti”. Questo apparente paradosso dei due blocchi populisti è del tutto comprensibile, se appunto lo inquadriamo in almeno cinquant’anni di consociativismo spartitorio in cui due parti ufficialmente avverse si sparivano di fatto tutto quello che nel tempo è stato possibile spartirsi. Spartizione continuata anche dopo la fine della guerra fredda e la scomparsa del PCI. Dopo un breve intermezzo di tentate riforme nei primissimi anni novanta, e nonostante lo scontro tra “berlusconismo e anti-berlusconismo”, la spartizione si è soltanto ufficializzata. A un certo punto non c’è stato più niente di nuovo da spartire, visti i vincoli che i mercati ponevano all’ulteriore crescita del debito pubblico, mentre l’economia ha continuato ad arrancare (e quindi ad andare indietro, dopo la forte recessione da cui non si è mai ripresa).
Ovviamente, la “carta” (come le promesse) è una cosa, la “cassa vuota” e il blocco economico un’altra. Peraltro, anche se le casse dello stato non fossero vuote (letteralmente: siamo in abbondante deficit di entrate e lo saremo ancora per anni), non c’è niente di questa spartizione che sia indirizzato ad aggredire veramente i vari nodi che bloccano il paese da più di dieci anni (e in verità da molto prima). Ci trasciniamo un’economia nera oggi valutata 250 miliardi di euro da decenni e forse questo spiega perché la prolungata crisi abbia assunto la forma di un lento declino e non di una rivolta. Spiega però anche il debito dello stato. Aggredire questi nodi (o almeno provarci) produrrebbe assai più dissenso che consenso.
Quelle promesse sono dunque, in realtà, lo specchio del paese, sono il prodotto demagogico di quella discrasia tra aspettative, tanto irrealistiche quanto irresponsabili, e risorse disponibili di cui dicevo e che viene continuamente ribadita. Oggi è evidente che la cultura che l’alimenta pervicacemente è uno strano (in apparenza) mix di sinistrismo (più o meno radicale) e di destrismo (sempre nel nome dei “diritti”). Oggi sono le due facce del populismo di massa (Addario, 2018c), quelle che sotto traccia erano la vera sostanza delle vecchie e confuse ideologie politiche della seconda metà del secolo XX. È quanto rimane di materiale delle antiche utopie di destra e di sinistra (oggi al posto, rispettivamente, delle “plutocrazie” e delle “classi” ci sono i “poteri forti” e la “casta”), ma anche della cultura sociale cattolica, quella che teorizzava e praticava la politica delle corporazioni (oggi “corpi intermedi”).
Ancora oggi nella Chiesa, e in modo assai autorevole, si ribadisce la dottrina medioevale secondo cui “il denaro è lo sterco del diavolo”. Se non si acquista consapevolezza di questo autentico e antico groviglio di nodi, non si avrà autentica opposizione e il paese sarà (prima o poi) protagonista di una nuova tragedia. Il “che fare?” deve iniziare col raccontare al paese la verità! Sull’economia, sul bilancio dello stato e l’evasione, più in generale sui “diritti” avulsi da un contesto di responsabilità e meriti soggettivi e di gruppo. Su come la democrazia, privata di un contesto culturale e istituzionale liberale, possa rovesciarsi nel suo opposto e approdare rapidamente al sottosviluppo
Sarà una cosa che richiederà il suo tempo, perseveranza, nuova capacità comunicativa e un nuovo tipo di organizzazione e, soprattutto, di prassi politica e leadership.
Ma solo così v’è una speranza di poter ricominciare.
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Full Professor presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, Dipartimento di Scienze della Comunicazione e dell’Economia. Ha insegnato presso l’Università L. Bocconi di Milano, l’Università Statale di Milano, l’Università Statale di Pavia. Ha studiato presso il Dipartimento di Sociologia della Temple University di Filadelfia (USA) con una borsa NATO. E’ autore di numerose pubblicazioni scientifiche.