di Pietro Ichino
I decreti emanati sulla base della legge-delega del 2014 sono otto e riscrivono quasi tutto il nostro diritto del lavoro; ma si discute soltanto di quello che ha riscritto la disciplina dei licenziamenti, armonizzandola con quella degli altri Paesi della UE
La riforma del lavoro del 2014-15 consta di una legge-delega e di otto decreti delegati, con i quali è stata riscritta la maggior parte del diritto del lavoro italiano di fonte legislativa.
Non ho condiviso le scelte compiute su alcuni capitoli, come quello delle dimissioni del lavoratore (dove, per combattere il fenomeno delle dimissioni in bianco, di dimensioni minime, si è complicata la vita a tutti); e su quello relativo alle collaborazioni autonome continuative avrei, tutto sommato, preferito il mantenimento della disciplina contenuta nella legge Fornero del 2012.
Su altri capitoli le scelte compiute sono state quelle giuste, ma sono state disattese o disapplicate dai governi che si sono susseguiti dal 2016 in poi: è questo il caso, per esempio, della norma sullo standard retributivo minimo orario, oggetto di una delega legislativa che poi non è stata esercitata (anche per l’opposizione della Cgil); dell’unificazione degli ispettorati del lavoro in un’unica struttura, che è rimasta solo sulla carta; dell’anagrafe della formazione professionale, in funzione della rilevazione capillare del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi, che pure è rimasta sulla carta, nonostante che fosse stata concordata dal Governo centrale con le Regioni.
Quanto alla materia dei licenziamenti – curiosamente la sola che interessa nel dibattito politico attuale –, alla riforma del 2015 va riconosciuto il grande merito di avere armonizzato la legislazione italiana rispetto a quella di tutti gli altri maggiori Paesi UE, completando il passaggio avviato con la legge Fornero del 2012 da un regime sostanziale di job property a un regime nel quale la sanzione contro il licenziamento ritenuto dal giudice ingiustificato è di natura indennitaria.
Non ne è derivata alcuna “precarizzazione”: il rischio di essere licenziati in Italia non è significativamente aumentato; ma si è drasticamente ridotto il contenzioso giudiziario su questa materia, che in precedenza era decisamente abnorme. Chi ci ha perso sono soltanto gli avvocati.
(Dichiarazione rilasciata al quotidiano Il Riformista e da questo pubblicata il 25 luglio 2023)
Già senatore del Partito democratico e membro della Commissione Lavoro, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Ordinario di Diritto del lavoro all’Università statale di Milano, già dirigente sindacale della Cgil, ha diretto la Rivista italiana di diritto del lavoro e collabora con il Corriere della Sera. Twitter: @PietroIchino