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Una crisi di governo figlia di alleanze senza principi

Giovanni Cominelli martedì 19 Luglio 2022
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di Giovanni Cominelli

La parlamentarizzazione della crisi di governo e il conseguente rinvio alle Camere di Draghi è l’unica notizia positiva di questa vicenda surreale. La marcescenza del non-partito di maggioranza, guidato da un non-leader, sta toccando l’intero corpo politico del Paese. Tuttavia, questa immagine non rende completamente la verità sullo stato del sistema dei partiti. La decomposizione non sta avvenendo ai margini, ancorché molto estesi – più del 33% del sistema – sta accadendo all’intero sistema dei partiti, sempre meno sistema e sempre più puzzle disordinato, e anche al loro interno. Perché il Paese sia finito nelle mani di una banda di incompetenti e di irresponsabili è, infatti, questione “di sistema”, che riguarda tutti i partiti. Sparare sulla Croce rossa di Conte viene facile sia ai giornali e agli opinionisti che lo hanno sostenuto fin dall’inizio sia ai partiti che ne hanno cercato l’alleanza di governo. L’aver accreditato quale forza di governo un Movimento eversivo al fine opportunistico di occupare posti di potere, alleandovisi, magari con l’alibi della “romanizzazione dei barbari”, è una responsabilità grave da imputare sia alla destra sia alla sinistra. Se siamo di nuovo al punto più basso di questi cinque anni di legislatura e se ci troviamo, di bel nuovo, sull’orlo di una crisi di sistema, ciò ha potuto accadere perché il virus populistico, di cui il M5S-Wuhan è stata la maggior centrale di diffusione, ha infettato tanto la destra quanto la sinistra. Il che è come dire che è tuttora infettata. Il vaccino-Draghi non ha potuto compiere la sua opera fino in fondo. Al momento, l’ipotesi di una seconda dose appare possibile, ma precaria.

All’inizio del primo governo Conte, nel 2018, la base dell’alleanza con la Lega erano stati l’idea di una democrazia senza intermediazioni partitiche e il leaderismo carismatico-autoritario.  Salvini, il socio minore, scommetteva sul M5S quale tram verso il potere carismatico-autoritario. Niente a che fare con il fascismo paventato dalla sinistra e da essa usato come alibi e giustificazione per un’alleanza successiva di governo con il M5S: piuttosto una versione italica dell’orbanismo, il disprezzo per le democrazie liberali e una conseguente ammirazione per i regimi dichiaratamente illiberali.  Donde un allineamento condiviso con il M5S in politica estera su posizioni filotrumpiane, anti-europee, filorusse e filocinesi. Non è stato, dunque, il programma socio-economico il motore di quell’alleanza – l’assistenzialismo era già la base comune al Sud con la Lega, che invece al Nord praticava il “protezionismo operaio” – ma, appunto, l’idea della democrazia. Ma qui Salvini ha tirato troppo la corda, pur disponendo solo del 18% rispetto al 33% del M5S: ha preteso di guidare il tram. Il cambio di spalla del fucile operato dal M5S, che nel settembre del 2019 si è alleato con il PD, è stato possibile grazie alla subalternità programmatica della sinistra al M5S. I motivi furono tre: essendo il PD stato al governo dal 2011, mal sopportava il digiuno ministeriale; una parte del PD, la sinistra in particolare, aveva richiamato in servizio l’antifascismo, da utilizzare questa volta contro Salvini, donde una convergenza oggettiva con una parte del M5S, ma da punti di vista diversi; la maggioranza (ex-Dc e ex-Pci ), da Franceschini a Bettini, era favorevole all’alleanza con il M5S – Franceschini lo è stato fino a pochi giorni fa – nell’illusione che la propria superiore sapienza politica, tipica di chi “viene da lontano”, avrebbe consentito di utilizzare la forza intellettualmente bruta dei pentastellati per un disegno più nobile. Non così favorevole Zingaretti, che si era trovato subito d’accordo con Salvini per tornare al voto. Non perché avesse dubbi sul “fortissimo riferimento dei progressisti”, che era il nuovo Conte-Prodi, ma perché sperava, per motivazioni tutte partitiche, di togliersi il disturbo di Renzi, rimodellando la rappresentanza parlamentare a propria immagine e somiglianza. In ogni caso, si stilarono una serie di compromessi programmatici, di cui il più importante fu l’accordo con una rivendicazione-chiave dei penstastellati: quella della riduzione dei deputati, in cambio di una revisione della legge elettorale. Che ancora si attende. Sulla parte sociale – reddito di cittadinanza e affini – l’accordo era totale. Quanto a Renzi, non è stata certamente casuale la coincidenza tra la conclusione dell’operazione M5S-PD, da lui fortemente sponsorizzata, e la sua decisione di abbandonare il PD, per inseguire l’illusione di un nuovo partito à la Macron. Il “florentin” sperava di aver colto molti piccioni con una fava: togliere di mezzo Salvini, imprigionare il PD in un’alleanza paralizzante, costruire un partito liberal-democratico, che gli avrebbe consentito di drenare forze da un estenuato PD.
Resta il dubbio, nutrito da parte democratico-liberale già fin dall’epoca, se non fosse stato il caso di andare subito ad elezioni, mettendo fuori gioco il M5S. Ma all’epoca si paventava la vittoria di una destra antieuropea e si sollevarono ondate di antifascismo di ritorno. Il rifiuto di andare ad elezioni ha provocato due successivi salti mortali, uno cattivo – il governo giallo-rosso – e uno buono – il governo Draghi. Ambedue  provocati da Renzi, genio, sregolatezza e inconcludenza. Ma la malattia endemica del sistema non è stata debellata. E oggi ha presentato il conto.

Qual è la morale di questa storia triste e confusa? Che i principali partiti della destra – Lega e Fratelli d’Italia – hanno le idee molto chiare su politica interna e politica estera e sui programmi socio-economici: un’Italia illiberale, protezionista e assistenzialista. Ed hanno cercato le alleanze per realizzarli. I Partiti di sinistra, il PD e poco altro, hanno idee molto chiare in politica estera, sull’Europa, sull’Ucraina, sulla pace e sulla guerra, ma del tutto incerte e contraddittorie o vuote su riforma istituzionale e legge elettorale – cioè sulla struttura istituzionale della democrazia – e su un programma fondamentale per il Paese e perciò hanno cercato fino a ieri il M5S quale principale alleato. L’incertezza programmatica non è la conseguenza di cattive alleanze, ne è la causa. E questa è tutta endogena. Qual é? Una troppa lunga e defatigante transizione ideologica dalla sinistra storica di classe – PCI e PSI – ad una sinistra liberal-socialista e liberal-democratica.

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