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Dalla sconfitta del Sì una lezione e due nuove sfide per i riformisti

Marco Martorelli giovedì 8 Dicembre 2016
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I risultati del referendum del 4 dicembre 2016 consegnano ai riformisti italiani una lezione e due nuove grandi sfide.

1 La lezione dei numeri: fine delle riforme istituzionali realizzate “nonostante i partiti”

Non bastano più le riforme istituzionali “buone in sé”, c’è bisogno di un accordo tra partiti: strano ma vero, ai tempi della “rivolta contro l’establishment”. Con il 4 dicembre possiamo dire ufficialmente chiusa una fase, aperta dai referendum dei primi anni ’90, nella quale si è tentato di realizzare la transizione istituzionale del Paese “nonostante i partiti”, facendo cioè ricorso agli strumenti di democrazia diretta e confidando nell’insoddisfazione degli elettori nei confronti della classe politica: una “strana alleanza” tra riformismo e voto di protesta che ha dato i suoi buoni frutti, ma la cui forza si è esaurita presto, forse già all’alba della cosiddetta seconda Repubblica. A conferma di ciò, una prima analisi dell’Istituto Cattaneo http://www.cattaneo.org/press_release/voto-per-il-no-e-voto-alle-elezioni-politiche-del-2013/, rileva che anche in questa consultazione – come accade regolarmente da anni – gli elettori si sono mobilitati seguendo le indicazioni delle forze politiche di riferimento: se si sommano, infatti, i voti ottenuti da Centrodestra (9,9mln), Cinquestelle (8,7 mln), e Sinistre varie (1,8 sommando Sel e Rc) alle politiche del 2013, si avrà una notevole corrispondenza con i risultati ottenuti dal No alla riforma (19,4 mln). Sul fronte opposto, il Sì alla riforma (13,4mln), pur assestandosi al di sopra della somma dei risultati del 2013 di Pd (8,6mln)+Sc (2,8)+Udc (0,6mln), non ha “sfondato” nel campo avversario. Se dalle politiche del 2013 al referendum sono intercorse diverse novità – si pensi alla scomparsa di Scelta Civica, i cui voti sono stati grosso modo incorporati dal Pd – una prima lezione dei numeri è che qualora si volesse rimettere mano alle riforme istituzionali non si potrà prescindere da un accordo tra partiti “pesanti” abbastanza da poter vincere anche eventuali battaglie referendarie.

2 La sfida del “neoproporzionalismo” alla vocazione maggioritaria

Il Sì alla riforma Renzi-Boschi avrebbe rappresentato il compimento di un disegno di riforma istituzionale del Paese che in tante assemblee di Libertàeguale abbiamo contribuito a delineare: semplificazione del quadro politico, con soggetti partitici a vocazione maggioritaria che si contendono il governo in una stabile democrazia dell’alternanza, come accade nelle democrazie più avanzate. La sconfitta è netta, ma è necessario guardare avanti e ricostruire quella governabilità che serve al Paese per rilanciarne lo sviluppo e ridurne le disuguaglianze. Con la vittoria del No, l’unico pilastro ancora in piedi di questo disegno di modernizzazione è il Partito democratico, il partito unico dei riformisti, partito la cui tenuta è duramente messa alla prova dal “neoproporzionalismo” imperante dopo il risultato del 4 dicembre. La leadership di Matteo Renzi – che è al contempo conseguenza e realizzazione del partito a vocazione maggioritaria – è a sua volta l’unica realistica base su cui può reggere un Partito democratico coerente con la propria funzione politica. Non lo affermiamo per fede messianica nel capo, né, banalmente, per il fatto che molti esponenti di Libertàeguale hanno fatto parte della squadra del governo Renzi, ma per la concreta presa d’atto che non vi è all’interno del Pd una leadership in grado di interpretare in modo così “naturale” la doppia funzione di segretario e candidato alla presidenza del Consiglio, che è nel Dna del partito. Se Renzi fosse sconfitto dentro il Pd da manovre di corrente, il Pd sarebbe a rischio implosione, soprattutto in un quadro di regole elettorali che potrebbero favorire una nuova fase di frammentazione politica. È in grado la leadership di Matteo Renzi di sopperire alle difficoltà del Pd e tenerlo unito? Può questa unità essere funzionale ad una rinnovata agenda riformista di governo? Per storia, tradizione e, sì, vocazione, i riformisti non possono che fare la propria parte perché ciò accada.

3 La sfida del M5S e della politica “post-truth” via web vs il riformismo

Nel corso della campagna referendaria, la notizia più condivisa sui social network è stata quella pubblicata il 23 novembre dal sito “italiani-informati.com”, secondo la quale sarebbero state ritrovate, nell’ipotetico comune di “Rignano sul Membro”, 500mila schede con il Sì già precompilato: una clamorosa e rozza bufala, ovviamente. Una clamorosa e rozza bufala che è stata condivisa e diffusa sui social network con oltre 230mila interazioni. Non ce ne stupiamo, ricorderemo il 2016 non solo per la Brexit e la vittoria di Trump, ma anche per la definitiva affermazione dell’espressione “post-truth” – teorizzata dal sociologo Ralph Keyes e ripresa dal blogger David Roberts – scelta come parola dell’anno da parte dell’Oxford Dictionaries. In sintesi, per gli studiosi di Oxford “post truth” rappresenta “circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti, nella formazione della pubblica opinione, del richiamo alle emozioni ed alle convinzioni personali”. È il web la grande e accogliente “serra” di queste emozioni e convinzioni, tanto più radicate e legittimate quanto più shared, condivise con cerchie più o meno allargate di contatti. A cogliere in anticipo sugli altri soggetti politici italiani queste potenzialità del web – socialmente atomizzanti, ma elettoralmente redditizie – è stato il Movimento 5 Stelle ideato dalla Casaleggio Associati, che, sul carisma apocalittico di Beppe Grillo, ha intessuto una ingegnosa rete di siti e profili, moltiplicatori di propaganda e click-baiting. Questa organizzazione del consenso, poggiata sulla rabbia delle classi medie e medio basse per la lunga crisi economica in corso, si sta dimostrando di successo, riproponendo una rapidità di affermazione politica simile a quella di Silvio Berlusconi nel 1994. Ora, se nel corso della seconda Repubblica, buona parte della sinistra ha perso il tempo proprio e quello del Paese a demonizzare Silvio Berlusconi e le sue Tv, noi riformisti abbiamo capito presto che il centrodestra era battibile facendo evolvere il centrosinistra sul terreno dell’elaborazione e dell’organizzazione dell’offerta politica. Dobbiamo fare altrettanto oggi, di fronte a sfide nuove, oggi che a contenderci il voto degli elettori – soprattutto i più giovani – è Beppe Grillo e la sua galassia web. Lo abbiamo, snobbato, deriso, ritenuto una meteora politica destinata a passare nel giro di poco, mentre adesso i Cinquestelle governano male Roma, decorosamente Torino e hanno dimostrato anche nel corso del referendum di avere una presa sull’elettorato costante, se non in crescita. Se il centrodestra non si emancipa dal lento – a dispetto di efficaci colpi di coda – declino di Berlusconi, la partita del Pd è contro i Cinquestelle: per affrontarla non dobbiamo pensare che il web sia solo terreno di odiatori e bufale, dobbiamo conoscere lo strumento per utilizzarne le potenzialità ed aggiornare il nostro stesso linguaggio, pena condannare all’elitismo le nostre idee e consegnare il futuro dell’Italia ad una propaganda priva di visione alcuna.

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