di Andrea Bonaccorsi
Con la consueta lucidità, Giorgio Tonini aveva posto alcuni mesi fa il problema della paternità politica del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Con un investimento politico il Piano potrebbe aprire una nuova stagione di riformismo, avviando a soluzione molti dei problemi strutturali dell’Italia. Tonini ricordava che le stagioni del riformismo italiano sono state associate a fasi macroeconomiche molto diverse, una espansiva durante il centrosinistra ed una restrittiva a cavallo dell’ingresso nella Unione Europea. Si apre ora una nuova fase espansiva, legata alle decisioni dei governi europei per il Next Generation EU e alla prosecuzione di politiche monetarie accomodanti da parte della BCE. È una occasione unica, che richiede però una assunzione di responsabilità, che Tonini chiedeva al Partito Democratico di prendere. Ad alcuni mesi di distanza mi pare che il tema sia ancora aperto.
Condividendo per intero questo ragionamento, credo che sia importante sottolineare le differenze tra le precedenti esperienze riformiste e quella, possibile, che sta davanti a noi. Prendiamo i decenni dell’ingresso in Europa. Il riformismo che si è praticato in Italia è stato essenzialmente di tipo macro. Poche decisioni cruciali, prese da una classe dirigente lungimirante, con conseguenze positive di lungo termine sul sistema economico e quindi sulla società. Dopo il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia voluto da Beniamino Andreatta (12 febbraio 1981), la concertazione con il sindacato voluta da Carlo Azeglio Ciampi ai fini della moderazione salariale, la stagione delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni, le prime politiche per la concorrenza sotto la presidenza di Giuliano Amato dell’Autorità antitrust, l’ingresso nell’euro di Romano Prodi, la conseguente rinuncia alle svalutazioni competitive. L’aspettativa, all’epoca del tutto fondata, era che la rinuncia alle svalutazioni avrebbe obbligato il sistema industriale italiano a riposizionarsi su un sentiero di produttività più elevata. A questo sarebbe seguito un aumento del prodotto lordo e del reddito, che avrebbe consentito il risanamento finanziario del settore pubblico e l’avvio di riforme strutturali.
Come è noto quelle previsioni non si sono realizzate nell’ampiezza desiderata. La lettura prevalente (condivisa oggi dai critici dell’euro da destra e da sinistra) è che nel mutato quadro internazionale i vantaggi dell’allargamento del mercato europeo sono stati più che controbilanciati dalla crescita della competizione cinese. Il che richiederebbe la ripresa di un ruolo nazionale più forte e aggressivo.
A questa lettura credo vada contrapposta una interpretazione più articolata, dalla quale emerge una agenda politica riformista innovativa.
A me pare che si richieda una nuova grande stagione di quello che potremmo definire il riformismo “micro”, orientato a far evolvere il sistema pubblico e privato verso obiettivi allo stesso tempo di aumento di produttività e di riduzione delle disuguaglianze.
Una agenda riformista micro potrebbe lavorare su vari fronti.
Il primo è il rafforzamento del sistema nazionale dell’innovazione, senza la quale gli aumenti di produttività sono un miraggio. Serve ridefinire la governance verticale tra governo e regioni, mettere a regime la rete dei centri di ricerca applicata e supporto alla innovazione, aumentare almeno di un ordine di grandezza gli iscritti all’istruzione tecnica superiore, rendere sistematici gli interventi per le start up innovative. Ad esempio sarebbe servito un intervento parlamentare per rimediare all’evidente svarione del governo che ha restituito all’ordine notarile il monopolio della registrazione della costituzione delle start up, generando sconcerto e disinganno nel mondo dell’innovazione.
Il secondo è la ridefinizione della organizzazione del lavoro, senza la quale gli aumenti di produttività non vengono diffusi nel sistema produttivo. Il riformismo macro si è basato storicamente su una contrattazione centralizzata con il sindacato, potendo contare su una leadership illuminata. Ma oggi la trasformazione digitale richiede un approccio decentrato per territori, settori e imprese, con contratti innovativi aderenti alle concrete modalità di produzione. Anche in questo caso un approccio riformista non dovrebbe lasciare in mano al solo Ministro della Funzione pubblica l’importante dibattito sullo smart working. Sono in corso esperimenti molto innovativi di organizzazione del lavoro tra presenza e remoto, con importanti investimenti in formazione permanente dei lavoratori e distribuzione degli aumenti di reddito. Ridurre tutto ad un referendum tra smart working si o no è veramente limitante.
Il terzo è una innovativa regolazione pubblica dei mercati, senza la quale aumentano le rendite e non cresce il reddito. Sono ancora molti i settori economici inefficienti a causa di limiti e incongruenze nella regolazione: dalle concessioni autostradali ai traghetti, dal trasporto pubblico locale all’erogazione dell’acqua alle concessioni balneari. È stata necessaria la tragedia del Ponte Morandi per aprire gli occhi su gravi errori nella scrittura dei contratti di concessione, un tipico esempio di difetti micro nella regolazione. L’esperienza mostra che non sono sufficienti i principi generali del mercato unico ma vanno disegnati accuratamente gli incentivi e i meccanismi operativi.
Sul piano del metodo politico l’adozione del riformismo micro comporta alcune innovazioni importanti. Il riformismo micro prende atto che nessuna riforma produce effetti se non include nel disegno delle politiche le specifiche condizioni organizzative per la implementazione e messa a regime.
Nessuna riforma riesce a scaricare a terra i suoi effetti se non può contare non solo sulla decisione del vertice, ma su una catena di implementazione che arriva fino ai livelli più bassi. L’esperienza dice che non bastano il vertice politico e il primo livello (diciamo pure: un buon ministro e un buon direttore generale), ma occorre scendere sistematicamente al secondo e poi terzo livello della organizzazione e atterrare poi sui territori. Serve una nuova selezione di management giovane, sia nella pubblica amministrazione che nelle società pubbliche. Non è un caso che fra tutte le politiche che richiedono una messa a terra decentrata sul territorio funzionano bene solo quelle strettamente gerarchiche (le forze dell’ordine, le prefetture), mentre non funzionano come dovrebbero, ad esempio, le politiche attive del lavoro, i trasporti locali, il contrasto al degrado geologico e ambientale, le politiche del turismo, le politiche culturali. Vi sono interi Ministeri ormai privi di una capacità di intervento che vada oltre la ordinaria amministrazione. Attenzione, il tema si riproporrà per la riforma della giustizia, che richiederebbe una attenzione assai più tecnica sulle condizioni operative decentrate di procure e tribunali.
Vi è poi un tema di partecipazione dei cittadini alle politiche pubbliche. Il riformismo macro è stato generato dalla riflessione di una élite politica e tecnica illuminata. Il riformismo micro si basa sulla mobilitazione di comunità competenti decentrate attraverso metodi di consultazione e deliberazione digitali. Va detto che una non trascurabile responsabilità politica dei Cinque Stelle è nell’aver compromesso il tema delle nuove forme di democrazia digitale, rendendolo poco credibile. Ma va ripreso con decisione, sulla base delle migliori esperienze del Nord Europa. Una ragione fondamentale è che l’implementazione delle riforme richiede processi di cambiamento che si indeboliscono nel tempo se non producono risultati tangibili. Ma i risultati devono avere dietro dei soggetti interessati, delle coalizioni di interessi e valori in grado di monitorare il cambiamento. Coinvolgere i cittadini nelle riforme fin dall’inizio fa la differenza. Le metodologie sono disponibili: serve un investimento politico nei prossimi anni.