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Un’ Europa più forte per spegnere l’incendio populista

Dario Parrini sabato 19 Dicembre 2015
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Di fronte alla potente ascesa dei populismi in tutto il continente, possono i governi europei non riesaminare quanto è stato fatto a livello nazionale e di Ue negli ultimi anni per la crescita e per il rafforzamento della dimensione comunitaria dell’Unione? Possono cavarsela dicendo che le politiche economiche seguite nel recente passato sono state in tutto e per tutto le migliori possibili e che sostanzialmente non c’è niente che credibilmente si possa o si debba cambiare? Possono cavarsela lasciando intendere che la minaccia populista, mai così insidiosa dalla fine della seconda guerra mondiale, è una febbre della quale i governi europei complessivamente non hanno colpa e che poteva essere evitata e che come è arrivata un giorno scomparirà? Possono credibilmente negare che una qualche reazione eccezionale sia, qui ed ora, necessaria? Possono ignorare il fatto che è stata assai superiore a quella dell’Europa la capacità degli Stati Uniti di reagire immediatamente alla crisi e di combattere la disoccupazione rispetto al periodo pre-Lehman e pre-subprime?

Non devono forse i i governi europei, in primo luogo i governi conservatori europei, fare i conti non semplicisticamente con quello che è avvenuto dal 2008 in avanti e promuovere la crescita con più determinazione, immaginando e percorrendo strade nuove per conciliare i due obiettivi, entrambi irrinunciabili, dello sviluppo e della solidità finanziaria pubblica e privata?
Insomma: in sede Ue si poteva e si può fare di più? O tutto il possibile è stato già fatto? A questi interrogativi non si può sfuggire. E chi ad essi deve dare una risposta non può restare indifferente a come oggi si presenta lo scenario politico europeo. Le formazioni politiche riconducibili al populismo di destra sono il primo partito, stando ai sondaggi, in Austria (Partito della Libertà), in Svezia (Democratici Svedesi) e nei Paesi Bassi (Partito della Libertà). Sono al potere, e fonte di inquietudine in tutta Europa, in Polonia e in Ungheria.
Risultano in netta crescita in Francia e in Svizzera (dove l’Udc, il partito di Toni Brunner, è di gran lunga la forza numero uno a livello federale).

Nell’Europa meridionale si sono affermati populismi di tipo diverso: un populismo con connotazioni di sinistra si è fatto largo in Grecia e in Spagna (Syriza prima versione e Podemos, che potrebbe emergere dalle elezioni iberiche come secondo partito). In Italia ha invece preso piede, e da tempo è stabilmente il secondo partito del Paese, un populismo di natura trasversale, nel quale la disordinata sterile e confusa eterogeneità delle proposte politiche è pur sempre l’altra faccia della capacità di raccogliere consensi nell’elettorato sia di destra che di sinistra. Fa eccezione il Portogallo, dove le istanze populiste non sono sfociate nella nascita di un nuovo partito. Benché assai diversi tra loro, tutti questi populismi hanno in comune un’impronta demagogica e un orientamento anti-Ue, antipolitici e anti-sistema. Le forze populiste non sfondano nei Paesi governati da robusti partiti conservatori (come nel Regno Unito e in Germania, dove l’Ukip e l’AfD non superano il 10 per cento e non paiono in grado di impensierire Cameron e la Merkel). Arretrano, e anche questa è una costante di un certo interesse, dove sono arrivati ad esercitare effettive responsabilità di governo: è successo in passato alla Lega in Italia, oggi ai Veri Finlandesi in Finlandia e al Partito del Progresso in Norvegia: in questi casi è diventato subito evidente il contrasto insanabile tra la radicalità delle promesse pre-elettorali e la loro fattibilità post-elettorale, e non aiuta le forze populiste il fatto di essere entrate, come partner di minoranza, in governi di coalizione guidati da forze tradizionali di centrodestra.

Qualcosa di diverso è accaduto in Danimarca, dove i populisti di Kristian Thulesen Dahl sostengono e condizionano dall’esterno il governo di centrodestra Rasmussen, nel quale hanno deciso di non entrare dopo essere arrivati secondi nelle ultime elezioni del giugno 2015. In un quadro continentale come quello appena descritto, il tipo di risposta che si dà alle domande iniziali può fare la differenza sul piano sociale, politico ed economico.
Solo un’Europa diversa può domare, e infine spegnere, l’incendio populista.

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