di Alessandro Maran
Nelle «most tumultuos midterms in a generation» (così le ha definite Usa Today) i democratici hanno strappato il bottino che tanto agognavano: il controllo della Camera dei rappresentanti. Ma i repubblicani possono vantarsi di aver rafforzato la presa sul Senato.
La campagna presidenziale di Trump è già cominciata
Però, la prima cosa che vale la pena di segnalare è che la campagna presidenziale è cominciata da un pezzo e procede a buon ritmo. Il Presidente Trump si è ricandidato il giorno stesso del suo insediamento, la sua campagna elettorale ha già raccolto 100 milioni di dollari e ha cominciato a inondare di propaganda elettorale le tv e il web. Non deve perciò sorprendere che Trump abbia condotto la campagna elettorale in maniera più aggressiva di qualunque moderno presidente nel corso di elezioni che si collocano a metà strada dalla conclusione del suo mandato. Ha attirato migliaia di sostenitori in raduni enormi nei quali ha parlato più di se stesso che dei candidati che era lì per promuovere. Alcune manifestazioni si sono tenute in Stati cruciali per le sue prospettive di rielezione.
Lunedì, infatti, ha chiuso la campagna con eventi in Ohio, Indiana e Missouri ed ha annunciato ufficialmente il suo slogan per il 2020: «Keep America Great». Insomma, siamo già nel 2020. Non per caso, la spesa complessiva per le elezioni ha raggiunto 5.2 miliardi di dollari: il più grande balzo nella raccolta di fondi per le midterm negli ultimi 20 anni.
Midterm 2018: un’opportunità per i Democratici
Per le speranze democratiche vecchie e nuove, in vista delle presidenziali, la campagna elettorale è stata un’opportunità per farsi conoscere. Un gruppo di potenziali contendenti (i senatori Cory Booker del New Jersey, Kamala Harris della California e Bernie Sanders del Vermont; i governatori Steve Bullock del Montana, John Hickenlooper del Colorado e Jay Inslee dello Stato di Washington) è riuscito a farsi strada fino in Iowa, lo stato che aprirà i caucus presidenziali tra 15 mesi o poco più. E qualche democratico ha visto nelle elezioni di midterm un’occasione per testare un messaggio «di sinistra» più assertivo da affidare al portabandiera del partito nel 2020, chiunque verrà fuori. «Avete mostrato al paese che i progressisti possono vincere e vincere risolutamente nel cuore del paese», ha detto, infatti, festeggiando la rielezione, il senatore Sherrod Brown dell’Ohio, spesso menzionato come un possibile candidato per le presidenziali.
Le nuove linee di frattura: laurea, genere, Obamacare
Va da sé che ci sono parecchie cose che meritano una riflessione. Sembra che la laurea sia il nuovo «political divide». Il divario di genere (la tendenza delle donne a votare democratico più di quanto facciano gli uomini) è una caratteristica consueta delle elezioni americane fin dagli anni Ottanta. Ora la netta frattura che riguarda l’istruzione ha aggiunto una nuova dimensione e aperto una nuova breccia tra gli elettori bianchi in possesso di una laurea e quelli che non ce l’hanno (gli elettori afroamericani di tutti i livelli di istruzione solitamente votano democratico, come moltissimi ispanici).
Inoltre, l’Obamacare è in recupero. Nelle due precedenti elezioni di medio termine non c’è stato argomento che abbia danneggiato i candidati democratici al Congresso più dell’Affordable Care Act. Ora, invece, i repubblicani sono stati costretti sulla difensiva proprio dal voto dello scorso anno per ridurre le protezioni dell’Obamacare e consentire agli stati di eliminare alcune dei requisiti previsti dalla legge. Al punto che, verso la fine della campagna elettorale, Trump e gli altri repubblicani sostenevano che non avrebbero abrogato l’Obamacare e che avrebbero mantenuto l’assistenza, sebbene abbiano offerto pochi dettagli su come avrebbero poi mantenuto la promessa.
I Democratici controllano la Camera dei rappresentanti
Resta il fatto che, dopo otto anni, i democratici hanno riconquistato la maggioranza della Camera dei rappresentanti, assestando al Presidente Trump un duro colpo. Il presidente cerca di dipingere il risultato come una vittoria, ma il controllo democratico della Camera può rendergli la vita impossibile e soffocare nella culla la sua agenda legislativa. Il controllo della Camera da parte dei democratici è destinato a modificare il terreno di gioco a Washington, funzionando da autentico contrappeso, per la prima volta nel corso della presidenza Trump, e spezzando il controllo repubblicano «unificato» di Camera, Senato e Casa Bianca. Ovviamente, per i democratici non sarà possibile trasformare in legge nessuna delle loro priorità, ma il controllo della Camera consentirà loro una supervisione rigorosa dell’esecutivo e di impantanare ulteriormente una presidenza sclerotica.
Ben 7 nuovi governatori vanno ai Democratici
Inoltre, anche se Andrew Gillum non ce l’ha fatta a diventare il primo governatore nero della Florida, il Partito democratico ha strappato ai repubblicani sette nuovi governatori nel Midwest e nella Sun Belt, compresi il Wisconsin, il Kansas e il New Mexico, difendendo al tempo stesso il proprio territorio. I democratici hanno rovesciato un’onda che aveva dato nel 2016 al GOP il 70 per cento dei governatori del paese.
Ora i democratici controllano 23 governatorati su 50. E con i 38 milioni di abitanti dei sette nuovi stati che hanno conquistato, i governatori democratici amministrano la maggioranza della popolazione americana. Hanno riconquistato 6 camere legislative e centinaia di seggi in tutto il paese. Negli Stati di New York, Illinois, Colorado, Maine e Nevada i democratici controllano gli esecutivi ed entrambe le camere legislative. Naturalmente, non tutto è andato come doveva andare, ma le vittorie permetteranno ai democratici di bloccare le politiche dei conservatori e di implementare a livello statale le proposte progressiste che hanno scarsissime possibilità di successo a Washington, specie nel contesto di un governo diviso. E saranno anche bastioni decisivi mente il partito si prepara alla lotta, Stato per Stato, per ridisegnare i collegi elettorali dopo il censimento del 2020.
Un risultato comunque positivo
Come ha scritto Jim Newell su Slate, «se il successo democratico non corrisponde alle aspettative, è perché quest’ultime sono andate troppo oltre». Eppure, se avessero chiesto al principio del 2017 ai democratici di accettare questi risultati, lo avrebbero fatto con entusiasmo. Nessuno allora si sognava di riprendere la maggioranza della Camera. I repubblicani avevano ridisegnato i collegi nel 2010 in alcuni Stati decisivi e l’opinione prevalente era che i democratici avrebbero dovuto aspettare il ridisegno dei collegi per avere qualche possibilità. La maggioranza alla Camera non era mai stata scalfita dal 2010 e, dopo l’elezione di Trump, era difficile immaginare che l’ammasso di rottami di quel che era stato il Partito democratico, rappresentato nei ruoli più importanti dai leader invecchiati della Camera che si rifiutavano di farsi da parte, potesse rappresentare una sfida realistica. Ora i democratici possono sindacare il contenuto di ogni pezzo di carta che passa sul tavolo dei contabili di Trump e il programma legislativo dei repubblicani è morto e sepolto.
“È abbastanza per il momento”
Insomma, come ha scritto Frank Bruni sul New York Times, il Partito democratico non ha ottenuto tutto quel che voleva, ma ha ottenuto quello di cui sia il partito che il paese avevano bisogno. «Volevo un rifiuto radicale delle ignobili politiche del presidente Trump, una dichiarazione incontestabile che questo paese è più grande della sua grettezza è più luminoso della sua oscurità. Ho ottenuto un riparo dai suoi peggiori impulsi nella forma di una significativa maggioranza democratica alla Camera (…) La prendo e lascio perdere le disquisizioni: se si tratti di un’onda grande, modesta o solo una goccia di qualcosa bagnato e tranquillizzante. È abbastanza, per il momento».
Ma in America non c’è una maggioranza di “sinistra”
Per i democratici non sono mancate le delusioni, molte delle quali dovrebbero preoccupare e sollecitare un pronto riesame della loro strategia. Le candidature «di sinistra» di alto livello, compresi Andrew Gillum in Florida e Beto O’Rourke in Texas, non hanno realizzato il sogno di molti dei democratici. «Potrebbe darsi che ci sia un insegnamento per il 2020 in tutto questo, ma non credo che il partito impari la lezione», ha chiosato Bruni.
Ma forse, come ha aggiunto David From sull’Atlantic, «il voto ha distribuito abbastanza delusioni per tenere a bada le tendenze più autodistruttive del partito. Se Beto O’Rourke ce l’avesse fatta in Texas, probabilmente i democratici avrebbero potuto candidarlo presidente nel 2020, garantendosi così una debacle quasi certa. Non c’è una maggioranza di sinistra in America. Non c’è una coalizione progressista plurale in America. E non c’è sicuramente una coalizione progressista nel Collegio Elettorale (il corpo costituzionale che in America elegge il presidente)».
Neri e giovani: il profilo dei Democratici vincenti
Più di un osservatore è preoccupato anche dal fatto che i democratici alla Camera – che ora sono in grado di tormentare un presidente che se lo merita – finiranno per esagerare e diventare la foglie di fico contro le quali Trump si scaglierà nel tentativo di cogliere il suo secondo mandato. Ma alla fine quel che conta davvero è che Trump aveva bisogno di una lezione e un decisivo spostamento della Camera nel campo democratico è quel che serviva.
Indubbiamente, hanno contato anche i profili dei democratici che hanno reso possibile l’inversione di tendenza. Ne hanno parlato in molti. Parecchi dei candidati che hanno trasformato i seggi rossi in seggi blu sono donne. Molti dei candidati che hanno strappato i seggi ai repubblicani sono persone di colore (come Colin Allred che in Texas ha battuto il finora invincibile Pete Sessions, Lauren Underwood in Illinois e Antonio Delgado a New York, sulla cui «blackness» i repubblicani si sono proprio fissati). Molti dei candidati hanno meno di trent’anni. Dietro al takeover della Camera c’è un grande numero di candidati molto giovani. Nancy Pelosi sarà anche pronta a rifare il presidente della Camera, ma quel che è accaduto rappresenta un cambio della guardia e una differenziazione nei ranghi da non sprecare.
Hanno prevalso i Democratici moderati, hanno perso le paranoie di Trump
C’è chi si chiede come mai non ci sia stato uno tsunami blu. E sono in molti ad elencare gli errori. «Molti democratici non hanno ancora compreso – spiega Frank Bruni – la differenza che c’è tra il parlare agli americani e trattarli dall’alto in basso, con arroganza. E in troppi sono impegnati in una sorta di Oppression Olympics (un termine usato quando due o più gruppi – femministe, neri, disabili, ecc. – competono per provare che l’uno è più oppresso dell’altro) che respinge gli elettori che si collocano al centro».
Ma martedì scorso i democratici, nelle elezioni della Camera (per capirci, le elezioni nazionali, articolate su tutto il territorio, collegio per collegio, contea per contea) hanno dominato. «Hanno dominato – ha ribadito il New York Times – tra gli indipendenti, nelle periferie; hanno dominato nei swing districts con candidati che hanno mostrato prudente moderazione in abbondanza. E hanno vinto nonostante il basso tasso di disoccupazione, la crescita dei salari e uno scenario economico complessivo che la maggior parte degli americani considera positivo». Stavolta, «it’s the economy, stupid» non ha determinato quel che è successo.
È stato Trump, che ha trasformato il Partito repubblicano in un immenso deposito di teorie cospirative, fake news, accuse fasulle e fantasie paranoiche. «Non è stato forse lo sganassone che sicuramente meritava, ma non è stato certamente un abbraccio».
Già senatore del Partito democratico, membro della Commissione Esteri e della Commissione Politiche Ue, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Parlamentare dal 2001 al 2018, è stato segretario regionale dei Ds del Friuli Venezia Giulia.