di Enrico Morando*
Il professor Paolo Segatti ce lo ha detto coi dati delle sue ricerche (Quaderni/40 Fondazione Giangiacomo Feltrinelli): il PD -che è tornato ad essere il partito asse del centrosinistra italiano- è un partito “sicuro” dei suoi elettori, che lo votano con tranquilla convinzione e non considerano -se non in percentuali marginali-, la possibilità di votarne altri. In questo senso il PD -con un consenso che si mantiene stabile tra il 18 e il 20%- è un partito “forte“. Che però soffre di “isolamento“: sono pochissimi gli elettori di altri partiti che prendono in considerazione l’ipotesi di votarlo. Una debolezza confermata e aggravata dal fatto che il livello di sovrapposizione tra l’elettorato del M5S e quello del PD è molto basso. Ciò che sembra testimoniare sia di uno scarso livello di omogeneità politica di una coalizione che li comprenda entrambi. Sia, soprattutto, della difficoltà di un significativo spostamento di elettori, interno alla coalizione stessa, che ne rafforzi l’asse riformista. Inoltre -come le Amministrative hanno dimostrato- la forza elettorale del M5S è declinante. Anche a causa di scelte positive (per il Paese) compiute da questo partito, che deludono elettori mobilitati dalla sua piattaforma originaria (Vaffa…).
Sull’altro lato dello schieramento politico, c’è il centrodestra: i tre partiti che lo compongono -in particolare i due maggiori, entrambi non lontani dal 20% dei consensi- hanno un elevatissimo livello di sovrapposizione dei rispettivi elettorati.
Mi auguro sinceramente di sbagliare, ma penso che questi dati ci dicano che -senza una fortissima iniziativa, capace di agire sulle motivazioni del voto e sul contesto in cui si terranno le prossime elezioni politiche, il loro risultato sia scritto: troppo deboli noi -sic stantibus rebus-; troppo forti gli altri.
Dunque, questa è la domanda cui deve rispondere chi non vuole accontentarsi di una bella sconfitta: quale iniziativa si deve assumere, su quale linea si deve camminare, per cambiare il contesto e incidere sulle motivazioni del voto?
Una indicazione potrebbe venirci dalla recente esperienza tedesca: nel giro di pochi mesi, la credibilità e la competenza della leadership socialdemocratica -utilizzando le debolezze dei competitori proprio su questi due decisivi versanti- hanno cambiato contesto e motivazioni del voto. Ce lo ha fatto toccare con mano, ieri, lo stesso professor Segatti.
In Italia la situazione è molto diversa? Certamente. Ma qualche punto importante in comune c’è: ad esempio, ci sono errori evidenti degli avversari. Che ne minano la credibilità come leader di governo. In particolare, la loro aperta ostilità -altrettanto apertamente ricambiata- nei confronti della leadership liberale, di destra e di sinistra, dell’Unione Europea.
Qui troviamo un primo fattore di mutamento del contesto in cui si terranno le prossime elezioni politiche: dopo il COVID e il Next Generation EU, il giudizio sull’Europa è cambiato: l’Unione non è più -nella testa di moltissimi elettori italiani- parte essenziale del problema. È larga parte della possibile soluzione. Molti dirigenti del centrodestra, soprattutto nella Lega, se ne rendono conto… Ma io dubito che Salvini voglia e possa cambiare -su questo punto decisivo- il posizionamento politico di fondo del suo partito. Qualche possibilità in più, forse, ha Fratelli d’Italia. Ma anche Meloni ritiene che sia il nazionalismo la sua carta fondante e vincente.
Quindi, in questo mutato contesto, gli avversari espongono il fianco alla nostra iniziativa: la loro leadership appare o lontana dalla posizione prevalente tra i principali governi europei; o addirittura rischiosa per gli interessi del Paese. Questa però è solo una delle condizioni per il successo del centrosinistra. Ed è creata dalle scelte degli avversari. Le altre, dobbiamo crearle noi. Esse si riassumono in tre parole: leadership, credibilità, competenza.
Oggi, in Italia, queste doti -in misura senza precedenti nella storia recente-sono riconosciute a Draghi. Ma Draghi non è il leader del centrosinistra italiano. Né lo diventerà.
Non è tuttavia impossibile che il PD, riacquisita una funzione di leadership del centrosinistra, si proponga ora di farsi interprete, agli occhi degli elettori, della continuità, anche dopo il ‘23, dell’esperienza Draghi, sul piano programmatico, sul piano della cultura politica e del posizionamento europeista e atlantista, sul piano dello stile di governo. Salvini e Meloni non possono e non vogliono farlo. Perché non è questione di immagine. È questione di cultura politica di fondo.
La maggioranza degli italiani, secondo me, percepisce che c’è una grande distanza tra la cultura politica prevalente nella Lega e in Fratelli d’Italia e la cultura politica di Draghi e dei suoi ministri fondamentali (penso a Franco e Cingolani). È quella stessa maggioranza che vorrebbe che il Governo Draghi proseguisse il suo lavoro. Ed è quella maggioranza che percepisce -nelle parole, nelle scelte, nello stile di governo di Draghi- qualcosa di più affine alla cultura liberaldemocratica e liberalsocialista largamente presente nelle forze del centrosinistra.
È su questa percezione di affinità che bisogna lavorare, per recuperare “l’isolamento” di cui ci ha parlato il professor Segatti. Le occasioni ci sono. Ma vanno colte con tempestività e massima determinazione. È mia opinione che non lo stiamo facendo, con la determinazione e la capacità di comunicazione necessarie. Farò due soli esempi, per motivare questo mio giudizio critico: la revisione delle regole del Reddito di Cittadinanza (RdC) e l’elezione del Presidente della Repubblica.
1- Oggi, il percettore del RdC che accetti un lavoro si vede tassato il salario percepito con l’ aliquota del 100%: tu hai reddito di cittadinanza per 700 €? Se accetti un lavoro part-time e percepisci un salario di 500 €, io Stato sottraggo 500 da 700 e ti dò un RdC di 200 €. In questo modo, lasciamo al cittadino percettore del RdC la scelta tra rifiuto del lavoro e lavoro nero. Nessun Paese europeo che abbia qualcosa di simile al Reddito di Cittadinanza si comporta così: la riduzione è molto graduale nel tempo, per consolidare l’assistito nel mondo del lavoro legale.
Il Governo Draghi, nella Legge di Bilancio 2022-2024, aveva compiuto un timidissimo passo in questo senso, portando l’aliquota di prelievo sul salario dal 100% dove è oggi all’80%. Nel merito, troppo poco per risultare efficace. Ma era il segno di una nuova consapevolezza e il primo passo nella direzione giusta. Oggi quella norma, nella Legge di Bilancio, non c’è più. Il Governo ha dovuto cedere alla pressione del M5S per lasciare le cose come stavano. Si possono capire, sia la scelta del Governo, sia il sostegno che tutto il centrosinistra le garantirà in Parlamento. Ma il lavoro politico nel rapporto col Paese è un’altra cosa: lì davvero non si capisce perché il PD non dica a chiare lettere che la soluzione giusta era quella adottata in un primo tempo. E che insisterà perché la si adotti, appena i rapporti di forza parlamentari lo consentiranno.
Questione troppo “piccola”, perché riesca ad incidere sulle motivazioni di voto dei cittadini? Se restasse episodio isolato, sì. Se si aggiungesse ad una posizione apertamente critica sul fatto che siamo nel 2021, a novembre, e -grazie a Salvini e alla sua Quota 100-, non sappiamo con quali regole si andrà in pensione nel 2023… E magari alla proposta di usare la maggior parte delle risorse disponibili per ridurre selettivamente la pressione fiscale sul lavoro dipendente e autonomo delle donne…Beh, allora nella testa dell’elettore che giudica bene Draghi ma ritiene di non avere un partito da votare può scattare qualcosa, in reazione ad un mutamento di offerta politica e di contesto.
2- Sulla elezione del Presidente della Repubblica. Parto da una constatazione: le cose, in Italia, stanno andando benone: abbiamo vaccinato più e meglio di molti altri. Cresciamo più di altri (dopo tanto tempo in cui è accaduto il contrario). Abbiamo accresciuto il credito di cui godiamo nel mondo. In una parola: c’è più fiducia. A determinare questo clima nuovo ha molto contribuito il Governo Draghi, sostenuto da una larghissima -e perciò stesso eterogenea- maggioranza parlamentare, dalla Lega al Partito Democratico. Bene. Ora, io mi chiedo: ma veramente si può pensare che questo clima potrà confermarsi e rafforzarsi -come è nell’interesse e nei desideri della collettività nazionale e dei singoli cittadini- se dentro la maggioranza si scatenerà un feroce conflitto all’ultimo voto (di franco tiratore) per eleggere il Presidente della Repubblica?
In verità, tutti sanno che -se succede questo-, il Governo è finito e la “fiducia“ dissolta.
Tutti lo sanno, ma il centrodestra si riunisce per candidare Berlusconi; e il centrosinistra non affronta ufficialmente il tema, lasciando spazio ad un diffuso chiacchiericcio mediatico da cui molti possono dedurre che si prepari a rendere pane per focaccia: a candidato del centrodestra, candidato e mezzo del centrosinistra.
Di cosa c’è bisogno? Di un centrosinistra, a partire dal PD, che dica apertamente che è necessario che la maggioranza di governo, dopo un serio lavoro di preparazione, proponga un suo candidato, da eleggere nelle primissime votazioni. In primo luogo, perché non è per caso che la Costituzione preveda un quorum elevatissimo, imponendo la ricerca di figure di effettiva garanzia. In secondo luogo, perché solo il concorso alla elezione del nuovo Presidente delle forze del centrosinistra e di quelle del centrodestra può credibilmente promettere agli italiani che almeno una parte del clima di fiducia che si è ora creato nel Paese possa essere mantenuto dopo le Elezioni del ‘23.
Il centrodestra non ci starà e andrà per la sua strada, con Berlusconi o con altro candidato? Sarà una iattura per il Paese, ma almeno avremo riannodato i fili che legano il centrosinistra a quella maggioranza di cittadini che oggi apprezza Draghi e vorrebbe continuità per il momento di fiducia in se stesso che il Paese sta vivendo… E sarebbe un altro significativo mutamento di contesto e di motivazioni, capace di incidere sul voto del ‘23.
*Intervento agli incontri riformisti di Libertà Eguale Lombardia – Eupilio (Co), 21 novembre 2021
Presidente di Libertà Eguale. Viceministro dell’Economia nei governi Renzi e Gentiloni. Senatore dal 1994 al 2013, è stato leader della componente Liberal dei Ds, estensore del programma elettorale del Pd nel 2008 e coordinatore del Governo ombra. Ha scritto con Giorgio Tonini “L’Italia dei democratici”, edito da Marsilio (2013)