Alexander Van der Bellen, un professore di economia di 72 anni già leader dei verdi, in un testa a testa ricco di suspense, ha vinto le elezioni presidenziali austriache, sconfiggendo il suo rivale dell’estrema destra, Norbert Hofer, con un margine risicatissimo. Van der Bellen, il primo presidente verde della storia europea, ha vinto con il 50,3 per cento dei voti e Hofer ha ottenuto il 49,7 per cento: una differenza di circa 30mila voti.
C’è di che festeggiare. Il risultato ha scongiurato la prospettiva di un populista di estrema destra che diventa capo dello Stato in seguito ad un’elezione democratica e permette all’Unione europea di tirare “un sospiro di sollievo”, come ha detto il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. L’Austria, una delle culle dell’estrema destra continentale, un paese in prima linea nella crisi dei profughi, ha votato un progressista, pro-rifugiati, figlio di immigrati estoni, al vertice dello Stato. E il candidato che ha fatto, di quella che ha definito “l’invasione musulmana”, la sua bandiera nel corso della campagna elettorale, ha perso.
Eppure la vittoria di Van der Bellen è troppo risicata per tranquillizzare. Il risultato ha mostrato quanto l’Austria sia profondamente divisa e quanto le élite centriste che hanno governato il Paese dal 1945 siano cadute in disgrazia. La (quasi) metà esatta del paese, sia di destra che di sinistra, ha votato per un cosmopolita pro-immigrazione. E la (quasi) metà esatta (trascendendo allo stesso modo il tradizionale discrimine tra destra e sinistra) ha votato per un nativista anti-immigrazione. L’Austria di oggi è un’istantanea del futuro politico dell’Europa. Un’Europa nella quale le differenze culturali tra città progressiste e aree rurali conservatrici spezzettano e mettono in discussione il vecchio asse destra-sinistra.
E’ facile puntare il dito su Bruxelles e Berlino per le oscillazioni nella gestione dei rifugiati che, inavvertitamente, hanno sospinto Hofer ad un’incollatura dalla presidenza del paese. E’ anche vero che il successo della FPÖ è parte di uno schema europeo. In Austria, Polonia, Germania, Paesi Bassi e Scandinavia, la crisi dei rifugiati, combinata agli attacchi terroristici degli estremisti islamici a Parigi e Bruxelles, sta spingendo gli elettori già a disagio con una prospettiva multiculturale verso i partiti dell’estrema destra che, cogliendo l’opportunità, hanno gettato alle ortiche le loro proposte più odiose, indossato il vestito buono e, nella maggior parte dei casi, rivolto un appello all’elettorato conservatore più soft. E non c’è dubbio che il margine molto risicato della vittoria riflette anche i grandi progressi nell’opinione corrente che l’estrema destra ha compiuto non solo in Austria, ma in gran parte dell’Europa – dalle confinanti Ungheria e Polonia, dove già dominano, alla Francia e alla Germania, dove i movimenti di estrema destra vanno forte nei sondaggi in vista delle elezioni politiche del prossimo anno. In Gran Bretagna, gli elettori sono chiamati a decidere il mese prossimo se il loro paese rimarrà nell’Unione europea. E anche in quel voto questioni come gli immigrati e il rifiuto dell’unità europea e delle élite centriste del Continente, centrali nel voto austriaco, potrebbero imporsi come motivo dominante.
Tuttavia, il fatto che Hofer sia andato così vicino a diventare capo dello Stato ha anche (e specificatamente) a che fare con i partiti austriaci storici. Il centro-sinistra (SPÖ) ed il centro-destra (ÖVP) – che sono stati annientati al primo turno delle elezioni presidenziali del mese scorso, quando Hofer ha scioccato i rivali raccogliendo il 35,1 per cento – hanno dominato il paese per decenni e governato in coalizione. Il sistema consociativo nato dalle esigenze di governo consensuale, nei primi anni della seconda Repubblica austriaca, denominato Proporz, attraverso il quale ciascuno sistemava i propri sostenitori, è clientelismo della peggior specie. Non solo SPÖ e ÖVP hanno creato le condizioni nelle quali Hofer (e Heinz-Christian Strache, il dinamico leader del FPÖ), potessero prosperare, ma hanno anche cercato di assecondare il FPÖ appena hanno cominciato a perdere terreno. Sul tema dei rifugiati, tanto per fare un esempio, il governo ha assunto posizioni contraddittorie, dapprima adottando una politica di accoglienza come ha fatto la Germania nel corso del 2015, per poi rivedere le proprie posizioni durante l’inverno, alla luce della crescita nei sondaggi del FPÖ e del consistente afflusso di migranti e richiedenti asilo, annunciando perfino nuovi controlli e recinzioni al passo del Brennero.
Nel suo primo discorso in neo eletto presidente ha messo in risalto il suo atteggiamento pro-europeo, accogliendo i reporter stranieri in inglese, e ha tuttavia promesso agli elettori di Hofer che le loro lamentele e le loro opinioni saranno prese in considerazione. “Abbiamo chiaramente un sacco di lavoro da fare” ha detto Van der Bellen. “Evidentemente, la gente non si sente considerata o ascoltata, o entrambe, a sufficienza”. Gli esperti dicono che Van der Bellen ha vinto le elezioni con il sostegno degli abitanti delle città – specialmente a Vienna, dove ha ottenuto il 61 per cento dei voti -, delle donne e delle persone più istruite. Ha promesso che cercherà di sanare le fratture che si sono aperte lungo queste ed altre linee mentre la “vecchia politica” ristagnava e si inaridiva. Con il piazzamento di Hofer, per la prima volta il Partito della Libertà (che ha le sue radici negli anni ’50, quando fu fondato da nazionalisti teutonici ed ex nazisti), ha ottenuto quasi il 50 per cento dei voti. E ovviamente bisognerà tenerne conto, proprio mentre l’Austria – un paese prospero di 8 milioni e mezzo di abitanti- lotta per trovare il suo posto in un mondo globalizzato e in un’Europa la cui unità è oggi in discussione.
Le turbolenze della globalizzazione e l’ondata di un milione di immigrati dello scorso anno (la maggior parte dei quali è passata attraverso l’Austria in rotta per la Germania e la Svezia) sono stati i temi centrali delle elezioni. Nonostante l’apparente e diffuso benessere dell’Austria, ha scritto Rainer Nowak, il direttore di Die Presse, il principale quotidiano del centrodestra, “la gente ha paura che le cose non andranno così bene ancora per molto”. Inoltre, ha aggiunto Nowak, “siamo diventati certamente una cultura appagata, che reprime o trascura le questioni vere, ed è riluttante semplicemente ad accettare il più piccolo compromesso quando si tratta di riforme o cambiamenti”. La sfiducia per chi sta al governo è cresciuta dappertutto, si sa. Una sfiducia che, secondo Der Spiegel, può essere riassunta in tre lamentele onnicomprensive: la globalizzazione ci ha asfaltato; nessuno ci ascolta; l’economia di mercato beneficia gli altri. Ma, scrive il settimanale tedesco, “il FPÖ sta ad ascoltare ed è rapido ad offrire soluzioni semplici: chiudi la porta. Lascia fuori gli immigrati”. Perfino i cosiddetti gastarbeiter (i lavoratori immigrati) ed i loro discendenti lodano il FPÖ. “Sono troppi, vengono a frotte – racconta Alì allo Spiegel – e ottengono tutto facilmente mentre io ho dovuto lavorare duro per anni”. Ma sia la SPÖ che la ÖVP, prosegue il giornale, “hanno dovuto constatare che non serve a nulla ripetere a pappagallo quelle risposte. Quel che aiuta e che serve davvero è ascoltare gli elettori, anche quelli perduti, prendere seriamente le loro preoccupazioni e fornire le proprie risposte che sono più intelligenti di quelle che vengono dal FPÖ”.
Col voto di domenica “cambierà molto poco nel mondo reale” ha detto Charles Grant del Center for Europen Reform, un think tank di Londra. In ogni caso, ha detto, è stato chiaramente un voto di protesta, ora che “il libero scambio, gli immigrati e la globalizzazione sono sempre più impopolari” e “la disuguaglianza sta crescendo” in tutta Europa e negli Stati Uniti. Grant ha paragonato il risultato a quello del UKIP, che ha ricevuto quasi il 28 per cento alle elezioni europee nel 2014, ma solo il 12,6 per cento nelle elezioni inglesi dello scorso anno. La mancata vittoria di Hofer potrebbe restituire fiducia ai partiti tradizionali, incoraggiandoli ad affrontare le necessarie riforme e a riconquistare il loro elettorato. Poi c’è l’Europa. In Francia, il quotidiano di centrodestra Le Figaro ha scritto lunedì che “i leader dell’Europa non dovrebbero essere troppo felici se Van der Bellen risparmia loro lo shock di un presidente anti-europeo a Vienna”. Il risultato, di stretta misura, contiene una lezione, ha aggiunto il quotidiano francese: “In tutto il continente, la gente esprime più o meno lo stesso rifiuto per un’Europa che manca sia di un progetto che di una testa”.
Già senatore del Partito democratico, membro della Commissione Esteri e della Commissione Politiche Ue, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Parlamentare dal 2001 al 2018, è stato segretario regionale dei Ds del Friuli Venezia Giulia.