di Alberto De Bernardi
Ora che i risultati delle votazioni dei circoli sono stati resi pubblici, anche se mancano ancora gli ultimi dati, e non mancano diverse contestazioni, si possono cominciare a tirare le prime somme e fare le prime valutazioni.
Innanzitutto la prima fase interna del congresso non è andata come volavano quelli che fin dal giorno dopo le elezioni hanno puntato su Zingaretti, che aveva fornito il quadro di riferimento politico e ideologico per trasformare la sconfitta elettorale in una condanna, non tanto o soltanto di Renzi, quanto del “renzismo”, vale a dire del primo tentativo di tradurre in politiche di governo l’impianto ideale liberal-progressista che stava alle origini del Pd e che si era impantanato nel retrobottega della “ditta”. La trasformazione del Pd in un Pds del XXI secolo non ha incontrato il favore della maggioranza degli iscritti: i consensi per Zingaretti oscillano intorno al 48/49%. Troppo poco per parlare di vittoria soprattutto se si pensa al dispiegamento di forze messo in campo dal presidente del Lazio: quasi tutti i capicorrente, una parte consistente dei gruppi parlamentari, buona parte dell’apparato del partito, LeU e i fuoriusciti capeggiati da Bersani, Repubblica e molti conduttori di TS di Rai e Cairo.
Se tutto questo “esercito” produce meno della metà degli iscritti che vanno al voto e neanche la metà di quelli che esercitano il loro diritto, tra cui vi sono molti che ancora vanno a votare con il nome suggerito dal dirigente di turno – vedi la denuncia di Nella Converti, vicesegretaria del circolo del VI municipio di Roma – vuol dire che ha una potenza di fuoco assai modesta ed afflitto da una sproporzione patologica tra generali e soldati.
Ma questo risultato non è casuale perché il ritorno della “ditta” stava in piedi se si fosse fatto il “governo del cambiamento” (quello di Bersani del 2013) con i 5S; ma questo disegno è evaporato come neve al sole, perché sei mesi di governo gialloverde hanno dimostrato l’inconsistenza del progetto zingarettiano, sostenuto e suggerito da una squadra di politologi in servizio permanente e attivo dalle colonne dei “giornaloni” e dalle presunte teste d’uovo della sinistra (D’Alema in testa) che dottamente hanno per mesi pontificato sull’inevitabilità dell’incontro tra Pd e M5S in nome della comune matrice di sinistra.
Populismo e riformismo infatti non possono governare insieme; tra queste forze non si possono fare “grosse coalizioni” perché non appartengono allo stesso spazio politico della democrazia liberale, come popolari e socialisti in Germania, come socialisti, liberali e conservatori del rassemblement che sostiene Macron, persino come, persino, Pd e Fi che hanno sorretto insieme Monti nel 2011. Infatti la democrazia liberale è il vero “nemico” del populismo, che è invece l’orizzonte ideale del Pd, di cui incarna le matrici progressiste, socialdemocratiche, liberalsocialiste. Questa evidenza storica al politologo militante sfugge, come sfugge ai politici alla Zingaretti, un po’ trasformisti, un po’ ministerialisti e un po’ animati dalla volontà di capitalizzare in fretta e furia la sconfitta elettorale per una resa dei conti interni: ma la realtà è più dura di ogni scorciatoia ideologica, soprattutto se si tiene conto che i 5S sono la peggiore variante del populismo sovranista in Europa, per inconsistenza della sua classe politica e per vuotaggine dei suoi presupposti progettuali e programmatici – oltre il vaffa, niente -: più che di Peron sono la riedizione stracciona di Achille Lauro. D’altronde Lauro era un grande armatore, mentre Casaleggio è un piccolo imprenditore dell’opaco mondo del web, che vive vendendo bufale, forse per conto terzi e sopravvive taglieggiando i suoi parlamentari.
Senza questa prospettiva politica, che il candidato Zingaretti ha esplicitamente escluso a congresso iniziato, anche se i suoi colonnelli l’hanno più volte riconfermata, cosa resta del progetto zingarettiano, se non uno straordinario rinculo nel passato? Senza nemmeno la prospettiva del centro sinistra “prodiano”, che non c’e più, dopo che nemmeno Grasso e compagnia sono riusciti a resuscitare una sinistra massimalista di governo: resta il paradosso di un partito a vocazione minoritaria senza nemmeno le famose “alleanze”?
Gli iscritti non hanno condiviso maggioritariamente e con entusiasmo questo progetto e non hanno apprezzato nemmeno che a sostenerlo fossero figure che fino a sei mesi fa appartenevano all’Inner circle più esclusivo del potere renziano. Sentire molti di loro ai congressi di circolo è stata un’esperienza deprimente: un esercizio di trasformismo che non ha giovato nemmeno al candidato, anche perché si vedeva benissimo che dicevano cose a cui non credevano pienamente. Gentiloni è il monumento vivente di questa contraddizione. Ma non ha fatto breccia anche perché sottendeva la convinzione errata che l’idea propalata per 5 anni dalle minoranze, secondo la quale Renzi fosse un estraneo e un intruso nel partito – una sorta di quinta colonna della destra nel corpo di un partito di sinistra – avesse un largo seguito nel partito e che due vittorie consecutive e con maggioranze bulgare nei due congressi precedenti fossero casuali e nate sull’onda di pulsioni emotive.
In realtà il “renzismo” nell’accezione che gli ho dato, ha plasmato nel profondo l’identità del partito, più di quanto spesso il suo gruppo dirigente sia disposto ad ammetterlo e a comprenderlo. La “rottamazione” renziana era parte integrante di un disegno di modernizzazione politica e di ridefinizione progettuale che aveva un segno del tutto diverso dal “voltare pagina” di Zingaretti: la si guardava avanti, qui si guarda indietro: un grande futuro dietro le spalle avrebbe detto Vittorio Gassman.
Questa differenza è stata colta da molti iscritti, che hanno sostenuto le altre due mozioni in gara (quella di Boccia sono delegati parcheggiati per sostenere poi Zingaretti) e soprattutto quella di Giachetti/Ascani, per ribadire che non sono disponibili a confondere un’analisi del voto strumentale – orientata non tanto a individuare le ragioni di una sconfitta, quanto a trovare un colpevole, dietro cui nascondere le velleità di rivincita di minoranze interne ormai prive di consenso e di credibilità – con una proposta politica. Questo disegno in realtà ha diviso il partito, invece che unirlo e ora, ammesso e non concesso che Zingaretti arrivi primo alle primarie, la proposta politica che dovrebbe determinare la “ricostruzione” è solo tattica, senza un progetto di largo respiro: un elenco di buoni propositi estratto da tutte le mozioni che hanno perso i congressi dei Ds e del Pd dal 2001, perché è saltato il progetto di cancellare il renzismo per fare l‘accordo con il movimento 5S.
Purtroppo Martina non ha avuto il coraggio di proporre un’alternativa nitida e determinata a questa operazione di restaurazione: si è perso tra mille distinguo, mille incertezze e nonostante il sostegno di una parte consistente dei parlamentari e dei dirigenti dichiaratamente renziani, non è riuscito a fare breccia nel cuore profondo del partito, per un carenza di identità troppo marcata. Anche lui era partito infatti da un’autocritica strumentale e insostenibile per uno come lui che era vicesegretario del partito e aveva condotto la campagna elettorale, questo si “fianco a fianco”, di Renzi; poi ha corretto in corsa questo approccio suicida, smarcandosi dall’idea che il congresso fosse una competizione tra due ipotesi di ritorno al passato e di negazione della sua identità di partito di sinistra liberale, ma non lo ha fatto a sufficienza per assumere il ruolo del leader che raccoglie la bandiera riformista del partito nella polvere dopo una dura sconfitta e ne fa la base della riscossa: senza rinnegare, ma offrendo una quadro di indicazioni utili per fare vivere nella nuova fase della politica europea il progetto riformista e progressista incarnato dal Pd. Si è perso nei meandri di un unitarismo senza scopo, a cui non ha saputo dare una effettiva consistenza progettale e programmatica. Tra il “partito del Pil” e il “partito degli ultimi” non è chiaro dove intenda collocare il suo Pd, e come intenda mettere in campo una effettiva strategia antipopulista. E gli iscritti non lo hanno seguito in maniera decisa.
Se in campo ci fossero state solo queste due proposte sarebbe ancor più scialbo e sbiadito di quello che purtroppo continua ad essere. Per fortuna che Giachetti e la Ascani hanno sparigliato la partita mettendo a disposizione del dibattito interno una proposta dichiaratamente alternativa a Zingaretti, che assume il profilo politico del Pd come sinistra liberale e cerca di farlo vivere nella nuova fase politica caratterizzata dall’affermazione del sovranismo populista: doveva essere una proposta di testimonianza, tra nostalgia e utopia, e invece ci è rivelata come un attore in campo in grado di determinare gli esiti del congresso, perché riesce meglio delle altre a definire l’orizzonte nel quale l’opposizione può diventare alternativa. E’ una mozione per ora di “vigilanza” che raccoglie consensi impensabili, però, perché veicola l‘adesione di quanti non hanno nessuna intenzione di buttare alle ortiche le fatiche del cambiamento e i successi ottenuti nel quinquennio ’13- ’17 e non sono convinti che il passato possa dirci come scrivere il futuro.
Può vincere questa mozione ai gazebo? Probabilmente no, ma obbligherà tutti a fare i conti con l’impossibilità di archiviare il renzismo e il progetto riformista che lo ha animato: anche se minoritario questo è un Pd che resta. Ma anche gli altri, per ora, sono minoranze.
Professore di Storia Contemporanea all’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Presidente della Fondazione PER – Progresso Europa Riforme. Componente del Comitato scientifico di Libertà Eguale. Tra i suoi libri più recenti: “Fascismo e antifascismo. Storia, memoria e culture politiche”, Donzelli Editore 2018, e “Il paese dei maccheroni. Storia sociale della pasta”, Donzelli Editore 2019