di Claudia Mancina
La maternità surrogata (o GPA, gestazione per altri) è un argomento spinoso e difficile. Perché coinvolge l’immagine del corpo e l’uso della libertà. E dunque piomba come un impensabile sulla cultura che il femminismo del secondo Novecento ha prodotto e che sta alla base di tante lotte e di tante vittorie, oltre che di qualche sconfitta.
Io non ho, a differenza di molte altre donne, anche mie amiche, le idee chiare sull’argomento; non ho un giudizio saldo e definitivo. Qui vorrei tentare di mettere insieme alcune riflessioni sparse, che sono più che altro degli interrogativi.
Anzitutto, vorrei dire che non mi ritrovo né nella tesi ultraliberista per cui le donne fanno quello che vogliono con il loro corpo, né con la crociata contro “l’utero in affitto”. Chi usa questa locuzione ha già chiuso, quasi in automatico, qualunque possibilità di confronto: a me sembra una reazione ideologica, che esclude anche la curiosità di chiedersi che cosa sta succedendo tra le donne, tra le nuove generazioni di donne.
La tesi ultraliberista a sua volta non si chiede che cosa significhi questo fenomeno, ormai così diffuso, e come lo si possa articolare con ciò che noi donne abbiamo imparato di noi stesse negli ultimi decenni. Credo che i motivi per cui il discorso sulla maternità surrogata è così difficile siano essenzialmente due: la questione della gravidanza e quella del rapporto col proprio corpo.
Dalla relazione madre-feto…
Le donne della generazione del femminismo hanno scoperto, teorizzato e praticato l’importanza della relazione madre-feto come aspetto fondamentale della gravidanza dal punto di vista psicologico, morale, autocoscienziale, se mi consentite la parola. Alcune di noi (anch’io) hanno addirittura giustificato l’aborto su questa base. Un punto che gli uomini non hanno mai capito, e certo può sembrare paradossale.
E’ chiaro che la surrogata nega precisamente l’importanza di quella relazione e il suo peso nella vita del bambino così come in quella della madre. Per quanto mi riguarda è questo il motivo per il quale non mi sento di approvare (naturalmente, in ipotesi, con tutte le debite garanzie che non ci sia sfruttamento) questa pratica.
Tuttavia ho dei dubbi. Fondamentalmente il dubbio è che qualcosa di molto importante stia cambiando nell’idea che le donne di oggi hanno della maternità: un cambiamento che dovremmo anzitutto cercare di comprendere. Non ogni cambiamento, certamente, è per il meglio: ma comprendere è comunque necessario.
E allora mi chiedo: quell’idea della relazione madre-feto che noi abbiamo non è anch’essa frutto di un cambiamento? Siamo sicure che le nostre madri, nonne, bisnonne vivessero così la loro esperienza? La mia bisnonna materna ha avuto sedici gravidanze. Dubito molto che la relazione con il feto fosse il suo vissuto principale.
Penso che la nostra idea della gravidanza sia il frutto delle evoluzioni dell’ultimo secolo: il controllo delle nascite, l’accesso al lavoro e alla cittadinanza, la crescente libertà di scegliere o non scegliere la maternità. Non c’è sempre stata, e non possiamo escludere che sia soggetta a un ulteriore cambiamento. Le donne più giovani che conosco mi sembrano molto diverse da me, da noi. Proprio loro sono molto più aperte verso la surrogata. Prima di lanciarmi in una crociata, vorrei capire questa differenza generazionale.
…al rapporto con il corpo…
Il secondo punto è il rapporto col corpo. La GPA riduce il corpo femminile a oggetto, a contenitore? Difficile negarlo. Ma guardiamoci intorno.
Intanto vorrei parlare del corpo, e non del corpo femminile. Molte cose che abbiamo detto e diciamo del corpo delle donne varrebbero anche per quello degli uomini. Anche gli uomini sono sfruttati, usati, stuprati. Generalmente da altri uomini, certo, ma questo non cambia i termini del problema, rispetto al discorso sull’uso del corpo.
Anche in questo caso, è in corso un cambiamento che coinvolge uomini e donne e che ci porta in un mondo nuovo. In una misura mai vista prima, il corpo sta diventando oggetto, non dell’altro – persecutore, sfruttatore, manipolatore – ma dello stesso io che abita quel corpo.
Fuori dai luoghi comuni ideologici
E’ l’io il principale manipolatore del proprio corpo. Pensiamo ai tatuaggi, che si allargano progressivamente quasi sino a coprire il corpo intero. Non è forse reso oggetto questo corpo, per scelta dello stesso individuo, maschio o femmina? Si potrebbero citare altri fenomeni, come quello che chiamerei della self-pornografia. Immagino che questo parallelo scandalizzerà molte donne: ma a me sembra che usare il proprio corpo per fare un bambino per altri si collochi in questo contesto.
Come dicevo, non ho risposte, ma solo interrogativi e dubbi. Vorrei che se ne potesse parlare senza cadere in luoghi comuni ideologici, da una parte e dall’altra.
Già docente di Etica all’Università “La Sapienza” di Roma, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Deputato dal 1992 al 1994 e dal 1996 al 2001 nel gruppo Pds/Ds, è membro della direzione nazionale del Partito democratico. Il suo ultimo libro è “Berlinguer in questione” (Laterza, 2014)